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Migrazioni e mutamenti / 6 collana diretta da ANDREA T. TORRE La ricerca e il libro sono stati realizzati con un finanziamento di Caritas diocesana bergamasca e Ufficio Migranti della Diocesi di Bergamo Copyright © 2013, il nuovo melangolo s.r.l. Genova - Via di Porta Soprana, 3-1 www.ilmelangolo.com ISBN 978-88-7018-373-3 Ilaria Micheli Il miraggio della prosperità Immigrati e movimenti religiosi alternativi a Bergamo a cura di MASSIMO RIZZI e CLAUDIO VISCONTI PREFAZIONE La migrazione: sfida e opportunità per la comunità cristiana. È quanto si dice sempre più oggi, identificando la migrazione come un’esperienza umana, che accomuna tutti, sia quanti accolgono che quanti sono accolti, nella relazione con un mondo che è sempre comunque diverso da quello che vorremmo e nel quale, volenti o nolenti, siamo stranieri. La migrazione è anche metafora della relazione con Dio: lo è da sempre per la comunità cristiana, che affonda le sue radici in un popolo che ha fatto della migrazione il proprio evento fondatore: il passaggio del Mar Rosso e l’ingresso della terra promessa non sono forse per il popolo di Israele una vera e propria migrazione? Dunque come comunità cristiana siamo chiamati a interrogarci continuamente sulle sfide e le opportunità che la migrazione pone. Così anche le nuove forme di religiosità che si presentano a noi, anche grazie alla presenza di migranti, non possono non porre in questione il nostro modo di essere credenti. Che cosa si cerca nella religione? Che cosa cercano un uomo e una donna che nel proprio Paese si riconoscevano nella Chiesa cattolica, nel frequentare gruppi religiosi alternativi? È questo l’intento che ha mosso la ricerca, voluta dall’Ufficio Migranti (che quest’anno celebra il 20° anniversario della fondazione) e da Caritas diocesana di Bergamo, che presentiamo in questo volume: cercare di comprendere le motivazioni che portano i cattolici provenienti da diversi Paesi, caratterizzati da lingue diverse, da culture diverse, a frequentare gruppi che non si riconoscono nella Chiesa cattolica e che talvolta, anche palesemente, agiscono in opposizione ad essa. Non è un lavoro dettato da mero desiderio scientifico, e neppure da pura indagine sociologica. L’intento di questa ricerca è pastorale: capire 5 tali motivazioni per interrogare il nostro modo di far pastorale, per comprendere se ci sono altre modalità di incontro con i cattolici di altre lingue e culture presenti sul nostro territorio, e pure modalità per risvegliare la fede anche in coloro che da sempre si sono riconosciuti nella Chiesa cattolica ma che oggi faticano a leggere il Vangelo a fianco di un fratello nella fede, che ha il colore della pelle diverso. La lettura di questa ricerca lascia uno strano “retrogusto”, come se si avesse mangiato un ottimo cibo – elaborato con accuratezza di dati e riflessioni –, ma che rimane indigesto. È il gusto amaro che costringe a una seria autocritica, un vero e proprio esame di coscienza, sulla reale capacità di accoglienza di fratelli nella fede stranieri. Questa è una delle cose che più colpisce: il fatto che non si stia qui prendendo in considerazione una generica – pur importantissima – integrazione a livello sociale, ma l’accoglienza da parte della comunità cristiana di battezzati cattolici, uomini e donne che nella loro terra condividevano con noi lo stesso credo, la stessa Eucarestia, lo stesso Vangelo della carità, pur declinato in forme diverse. È una provocazione forte a chiederci senza mezzi termini quanto l’accoglienza del Vangelo sia stata in passato e sia oggi in grado di stanare e convertire la fatica all’accoglienza e alla condivisione che abita anche le nostre comunità cristiane. Fa pensare a tanti discorsi sulla missionarietà della Chiesa che nonostante tutti i buoni propositi evoca sempre scenari “lontani” per distanza geografica o per appartenenza culturale; ma in queste pagine, in modo fortemente provocatorio, sembra venga rilanciata la scommessa di una missionarietà “vicina” che passa per la prossimità, l’accoglienza, la stima, l’invito, la valorizzazione di fratelli non tanto da evangelizzare, ma da accogliere come portatori del medesimo Vangelo. Strada solo apparentemente più semplice. Perché è vero che le “forme” della fede non sono indifferenti ad essa e celebrare l’Eucarestia a Bergamo non è la stessa cosa che farlo in Africa o in America latina. Anche in questa direzione dall’indagine provengono spunti significativi che aiutano a non considerare impossibile la ricerca di spazi di incontro, e vengono individuati elementi che provocano a ripensare la vitalità della pastorale: una ritualità spesso trascurata (si pensi solo come esempio al tema delle “benedizioni” che abbiamo spesso considerato più per la loro ambiguità che non per il potenziale che possono esprimere), la qualità della partecipazione dei fedeli nella preghiera soprattutto litur6 gica, che evidenzi un reale senso di fraternità, il rischio di un cristianesimo molto intellettuale, ma poco capace di parlare a tutto l’uomo (compreso il suo mondo affettivo ed emotivo), poco capace di intercettare i veri bisogni, le sofferenze e le speranze del quotidiano delle persone, la preziosità della presenza del sacerdote e di figure ministeriali, dell’ascolto delle situazioni concrete, la gioia che dovrebbe caratterizzare la vita dei discepoli che celebrano l’incontro con il Risorto. Un’ultima considerazione viene dalla sottolineatura che «credere che il fascino di queste filosofie sia in grado di attirare soltanto persone del terzo mondo è fuorviante» (pag.22). Ciò che la ricerca evidenzia in modo specifico per gli stranieri nella nostra diocesi, è lo specchio dell’altra “emorragia” di battezzati italiani che silenziosamente abbandonano la fede cristiana e si rivolgono ad altre esperienze “religiose”, spesso attirati dagli stessi motivi per cui questo avviene per uno straniero. Relegare dunque tutto a una questione di “lingua” o di “folklore” gli atteggiamenti contrassegnati nei migranti ed a sola ricerca di diversità o di novità l’anelito dei cristiani autoctoni che abbandonano le nostre parrocchie, sarebbe oltre che riduttivo, fuorviante e miope ed inoltre sprecherebbe quella chiamata alla conversione che fa intravedere lo scorrere delle pagine della ricerca. Ogni appello alla conversione è sempre anche occasione di speranza, perché ha il sapore di quel rinnovamento che Dio non cessa mai di operare (e di chiedere) per la sua Chiesa. Le pagine di questo lavoro possano giungere come appello alle coscienze di ciascuno, alla sensibilità di ogni nostra comunità cristiana e dell’intera Chiesa diocesana. DON MARIO MAROSSI Missione Santa Rosa da Lima DON CLAUDIO VISCONTI Caritas Bergamasca DON ALBERTO MONACI Ufficio per Pastorale Movimenti religiosi alternativi 7 La conduzione della ricerca e la stesura di questo report finale è il frutto di un lavoro a più mani. Innanzitutto è doveroso ringraziare Ilaria Micheli, dottoressa di Africanistica e ricercatrice: a lei di fatto va attribuito il testo che segue. Ci ha inoltre accompagnato nella preparazione di questo lavoro, aiutando gli intervistatori ad entrare nella mentalità di quanti avrebbero poi incontrato, e ha poi riletto tutte le interviste restituendoci alcune chiavi interpretative utili ad una rilettura del nostro modo di fare pastorale. Vi sono poi gli intervistatori: Estrella Quiroga, Lettrice dell’Università di Bergamo, nonché ricercatrice del mondo latinoamericano, Livia Brembilla, sociologa della Caritas diocesana, Silvia Beretta, che aveva già precedentemente accostato questo mondo, durante al ricerca condotta dalle ACLI. Di grande aiuto sono stati anche i mediatori linguistico-culturali: Pierre e Kevin. Un grazie a don Alberto Monaci, che ha riletto con passione il dattiloscritto dandoci alcuni suggerimenti, da un punto di vista privilegiato com’è il suo, in quanto responsabile della pastorale dei movimenti religiosi alternativi, e a don Mathieu Malick Faye, responsabile della comunità africana di lingua francese. Last but not least, il grazie va a don Mario che ha creduto in questo progetto fin dall’inizio, motivando tutti gli operatori e seguendo passo passo il lavoro, stimolandone anche la prosecuzione nei momenti di maggior fatica. Se oggi questo lavoro vede la luce è certamente merito suo. Ci auguriamo che in occasione del ventesimo anniversario del Segretariato/Ufficio Migranti, questo possa essere un ulteriore strumento per accostare quel mondo che ci pare ancora estraneo perché straniero. Ma noi sappiamo e crediamo che nella Chiesa nessuno è straniero, nessuno è escluso, nessuno è lontano. DON MASSIMO RIZZI Direttore Ufficio Migranti 9 INTRODUZIONE Negli ultimi anni la Diocesi di Bergamo, e più in generale l’Italia e l’Europa, stanno assistendo alla nascita di una quantità di movimenti religiosi di matrice cristiana, ma alternativi alla Chiesa cattolica. Nell’Editoriale della rivista belga Agenda Interculturel n° 297 del novembre 2011, N. CAPRIOLI scriveva: “Il Sinodo federale delle chiese protestanti ed evangeliche del Belgio (...) stima che ogni dieci giorni nasca una nuova chiesa” 1, e lo stesso più o meno si può dire per tutti gli altri nostri vicini dell’Europa occidentale. Considerando solo il territorio della Bergamasca, sulla base dell’indagine delle ACLI (Migranti cristiani sotto il cielo di Bergamo 2008 e 2012), nel giro di quattro anni i movimenti di questo tipo sono passati da 25 a 52 circa 2 e praticamente ogni giorno i loro fedeli aumentano, mentre sono sempre di più le parrocchie cattoliche che vedono assottigliarsi il numero delle presenze. Si tratta di gruppi carismatici, evangelici, neo- e pentecostali i quali, nel loro intento missionario, propongono l’idea di vivere una fede più viva e più vera, portando il discorso religioso all’interno della vita di tutti i giorni. Nella stragrande maggioranza dei casi essi nascono in seno a comunità di immigrati, soprattutto africani e latinoamericani, per i quali diventano, in un certo senso, un fattore unificante e identitario e un luogo di condivisione dei problemi comuni alla condizione di straniero in ter1. Questa, come tutte le traduzioni da originali in inglese, francese e spagnolo di brani citati nel testo, è mia. 2. Dal conteggio sono state escluse le chiese ortodosse e greco-ortodosse, ma i numeri sono senz’altro maggiori rispetto a quelli riportati qui, perché alcuni dei movimenti cristiani alternativi sono registrati esclusivamente come associazioni culturali e di questi non si può avere un’idea precisa. 11 ra straniera. Per rispondere ai disagi derivanti da questa condizione, come scrivono PACE-BUTTICCI e come si vedrà nel corso del nostro approfondimento, all’interno di questi movimenti, “durante la liturgia domenicale vengono creati nuovi scenari sociali. Alla condizione di straniero e migrante, così come a tutto il paradosso della migrazione, i pastori e le pastore attribuiscono un nuovo senso” 3. Ad ogni modo, ciò che più spinge i cattolici ad interrogarsi sul fenomeno della fioritura improvvisa di tutti questi movimenti cristiani alternativi è il fatto che molti dei fedeli che da noi aderiscono ad essi sono persone che nei loro paesi d’origine frequentavano la Chiesa cattolica, la quale a questo punto comincia a chiedersi se c’è qualcosa di sbagliato nel suo modo di porsi di fronte agli stranieri che bussano alle sue porte, oppure se questo accade solo per una questione etnica o (cosa che in sé sarebbe già molto triste) per far fronte all’emarginazione che per alcuni rappresenta la cifra caratteristica della vita quotidiana sul nostro territorio. In realtà già da diverso tempo i teologi cattolici stanno osservando il fenomeno e, come scriveva CANOVA, riguardo all’America Latina degli anni ’80, due furono, già in quegli anni, i documenti ufficiali redatti per cercare una linea comune di approccio nei confronti dei nuovi movimenti religiosi che spuntavano un po’ ovunque e ad un ritmo sempre più sostenuto. Il primo, un rapporto provvisorio, basato sulla documentazione pervenuta a Roma da parte di 75 Conferenze episcopali e regionali di tutto il mondo, fu pubblicato su l’«Osservatore Romano» il 7 maggio 1986 col titolo «Il fenomeno delle sette o nuovi movimenti religiosi: sfida pastorale» e fu realizzato unitamente dal Segretariato per l’unione dei cristiani, il Segretariato per i non cristiani, il Segretariato per i non credenti e il Pontificio Consiglio per la cultura, mentre il secondo, frutto di un convegno ecumenico che vedeva nelle sette uno stimolo per la Chiesa cattolica e le chiese storiche protestanti a cogliere le «sfide che provengono soprattutto dalla realtà concreta in cui vive il popolo latinoamericano» uscì il 10 novembre 1986 con il titolo Prima Consulta dei vescovi e dei pastori. (Cf CANOVA 1987:165-166). La Santa Sede è intervenuta ripetutamente sul tema delle sette e del proselitismo. Nel Direttorio ecumenico del 1993, ad esempio, la segnalazione del fenomeno ritorna sulle proposizioni presentate al Papa dai Padri dei Sinodi per l’America, per l’Oceania e per l’Europa. 3. Pace-Butticci 2010: 111. 12 Non va poi dimenticato l’intervento personale di Giovanni Paolo II nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato del 1991, che ha per tema: Una sapiente azione pastorale per salvaguardare i migranti dal proselitismo religioso. Anche la Chiesa Italiana negli ultimi vent’anni è intervenuta in materia; ad esempio con la Nota pastorale del Segretariato per l’ecumenismo e il dialogo del 30 maggio 1993, dal titolo: Di fronte ai nuovi movimenti religiosi e alle sette, dove erano presenti due chiari riferimenti al caso degli immigrati. La presenza di movimenti religiosi alternativi (così li chiamiamo, ma più di uno meriterebbe il nome di “setta”) è infatti consistente e allarmante soprattutto fra gli immigrati, in particolare fra gli africani sub–sahariani e i latinoamericani, anche se non lo è meno fra i rom e sinti e fra altre forme di mobilità umana. Come vedremo nel nostro approfondimento, si tratta soprattutto di movimenti evangelici pentecostali, ma pure dei testimoni di Geova. Sempre nel 1993 la Commissione episcopale per le migrazioni ha edito gli Orientamenti pastorali per l’immigrazione – Ero forestiero e mi avete ospitato, dove, al n. 35 si parla del “mondo delle sette” in questi termini: “Le sette e i nuovi movimenti religiosi sono un fenomeno in piena espansione un po’ ovunque. E loro campo preferito di proselitismo sono proprio i migranti, facili prede di metodi insistenti e aggressivi. È questa una delle più vive preoccupazioni della Chiesa… La proposta umana e religiosa che proviene dalle sette interroga i cattolici e li chiama a misurarsi con l’urgenza d’una testimonianza coerente, capace di tradursi in amicizia, dialogo, solidarietà, fede vissuta”. Anche il penoso fenomeno dell’allontanamento degli immigrati cattolici dalle nostre comunità ecclesiali e l’adesione a movimenti religiosi alternativi, conferma l’esigenza di sviluppare per loro una pastorale specifica con propri operatori e strutture, secondo le chiare indicazioni della Chiesa, così da assicurare loro un servizio pastorale fatto il più possibile su misura della loro profonda indole, mentalità, cultura, lingua e tradizione. Non si tratta di una “benevola concessione”, ma di una risposta a un loro preciso diritto, garantito dalla loro dignità di figli di Dio e da precise disposizioni della Chiesa. È importante che ai tanti sradicamenti che lo straniero subisce a causa della sua vicenda migratoria non si aggiunga anche lo sradicamento totale da quell’humus che ha favorito la nascita e lo sviluppo della sua vita cristiana. 13 Con tutto ciò non viene diminuita la competenza e la responsabilità delle nostre strutture pastorali italiane, e in particolare dei parroci, nei loro confronti. Questa responsabilità viene ripetutamente richiamata, anche con parole forti, dalla Chiesa. Si deve prendere atto che di fatto, anche dal punto di vista religioso, pastorale e perfino canonico, i migranti hanno una doppia appartenenza e quindi hanno titolo per una duplice cura pastorale, non da porre in reciproca concorrenza, bensì da armonizzare secondo la logica della pastorale d’insieme. Risulta sempre di utilità tenere presente la Lettera alle comunità cristiane su immigrazione e pastorale d’insieme intitolata Tutte le genti verranno a Te, emanata dal Consiglio Episcopale Permanente il 21 novembre 2004. Ultimo documento interessante è infine l’”Altro fenomeno da considerare è quello dei gruppi religiosi alternativi” emanato dal Pontificio Consiglio per la Pastorale dei Migranti in Situazioni e sfide per la pastorale dei migranti e rifugiati in Europa del dicembre 2003. Il problema è che cercare di investigare e comprendere la natura reale e le caratteristiche comuni di tutti questi movimenti è un’impresa da capogiro. Ci sono chiese relativamente strutturate (come quelle battiste o evangeliche), che prevedono un clero formato secondo un percorso ufficiale, che hanno origini e affiliazioni chiare negli Stati Uniti, in America Latina o in Africa. Tali chiese hanno un aspetto tutto sommato riconoscibile e riconducibile ad una teologia sempre coerente e una durata nel tempo e nei luoghi che permetterebbe di instaurare con loro un dialogo reale e proficuo per un percorso interconfessionale. Poi però ci sono anche molti altri gruppi, che di fatto rappresentano la stragrande maggioranza, soprattutto tra quelli che si definiscono neopentecostali e carismatici, che nascono e muoiono nel giro di pochi anni, ruotano attorno alla figura di un leader specifico e insostituibile e si estinguono nel momento stesso in cui questo leader si trasferisce in un’altra città, in un altro paese, ritorna in patria, o comunque viene a mancare per qualsiasi altro motivo4. Come scrivono PACE-BUTTICCI in4. Per dare soltanto qualche cifra indicativa, ecco quanto scritto da Pace-Butticci (2010: 19): “Secondo le stime del World Christian Database (http://worldchristiandatabase.org/wed/; cfr. Barrett, Johnson, 2001) almeno un quarto dei 2 miliardi di cristiani nel mondo fanno parte di Chiese pentecostali o di movimenti carismatici. Stime più prudenti valutano in 350 milioni il numero di aderenti (Johnstone, Mandryk, 2004). Parliamo di stime, poiché sinora nessuno li ha contati in modo dettagliato e preciso”. 14 fatti (2010: 99) e come è confermato dal volto mutevole del mosaico di questi movimenti nella Diocesi di Bergamo5: “I luoghi di aggregazione sono soggetti a continue riallocazioni. Molto comune è lo spostamento di Chiese che, di fronte alle difficoltà rilevate in un certo territorio, si spostano sia all’interno della stessa provincia sia altrove. In alcuni casi i membri seguono i movimenti della chiesa, in altri al nuovo insediamento segue una formazione ex novo. Tale mobilità è parte integrante della condizione migratoria dei membri delle diverse comunità nonché conseguenza diretta di pressioni e contingenze legate alle tensioni che emergono nell’ambiente esterno e interno alle comunità”. A ben guardare, tuttavia, alcune significative linee guida comuni si possono rintracciare e derivano da una riscoperta dei valori della prima cristianità e del protestantesimo originale: generalizzando al massimo, da un lato si trova il messaggio che Dio è da considerare presente nel qui e ora della vita di ogni essere umano, anche del più miserevole, e che lo Spirito Santo può essere invocato, per sostegno, consiglio e conforto, da chiunque in qualsiasi momento. Dall’altro lato c’è l’idea fondamentale che la Chiesa, così com’era stata creata da Cristo, aveva un carattere universale e immediato, non era certo un affare riservato ad un clero distinto dal popolo, e ognuno poteva avere libero accesso alla Parola tramite la lettura privata della Bibbia e l’interpretazione personale dei suoi contenuti 6. Si tratta dunque di un modo molto più diretto e trasversale, si potrebbe forse dire più personale, di intendere la religione e il rapporto con Dio, e proprio per questo non stupisce vedere che i movimenti storici dichiaratamente pentecostali sono nati tutti all’interno di comunità fragili, se non emarginate, e hanno sempre fatto leva anche su una dimensione politica e di riscatto sociale 7, capace di attirare le masse oppresse, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, in Africa come in America Latina. Il Pentecostalismo internazionale è infatti nato ufficialmente negli Stati Uniti, a Los Angeles in un salone scalcinato al civico 132 di Azuza Street tra il 1906 e il 1908, dove il predicatore nero Seymour si riuniva 5. Cf. Acli Migranti cristiani sotto il cielo di Bergamo - 2008 e 2012. 6. Cf ad esempio De Surgy (2001:229), il quale, riferendosi all’Église des Saints de Dieu (Cotonou, Benin, movimento pentecostale), scrive che la convinzione di base, comune a molti altri movimenti pentecostali è che: “La chiesa fondata dal Cristo è universale e «il dono dello Spirito Santo e il ministero apostolico non sono riservati ad un determinato popolo, né ad una determinata era»”. 7. Su questo argomento, riguardo agli Stati Uniti, s. v. Foley & Hoge 2007. 15 con un gruppo di amici in sessioni speciali di preghiera, profezia e guarigione 8. Da quel movimento si sono subito sviluppate due correnti: una prima, definita “nera”, che ha sempre posto l’accento sul tema degli oppressi e del riscatto politico degli afroamericani, e una seconda, quella “bianca”, che è sempre stata più legata alla dimensione prettamente spirituale, esaltando in special modo il battesimo dello Spirito e il dono delle lingue e delle guarigioni. Il credo di fondo di entrambe le correnti è sempre stato la certezza di vivere una nuova Pentecoste e i fedeli, grazie alle loro preghiere, sono convinti di essere testimoni e partecipi della grazia derivata loro dall’incontro diretto di ciascuno con lo Spirito Santo. CANOVA (1987:30) descrive infatti così le caratteristiche principali del Pentecostalismo della prima ora: “Fin dall’inizio la loro forza è insita nella loro mistica. Essi sono convinti che il dono delle lingue e, in un secondo tempo, il dono delle guarigioni sia il segno caratteristico che lo Spirito Santo è disceso su di loro come in una vera Pentecoste. Il dono del discernimento permette di conoscere se la possessione è opera dello Spirito Santo o di origine demoniaca. In questo caso coloro che hanno avuto manifestazioni estatiche sono in grado di esorcizzare gli ossessi. Nello stesso tempo l’esperienza spirituale del dono delle lingue ricupera e promuove socialmente coloro che sono marginalizzati dalla società”. Giusto per dire che le cose nel giro di un secolo non sono poi cambiate di molto, è bene forse considerare le parole di A. S. LECOMTE, analista del Centre d’information et d’avis sur les organisations sectaires nuisibles, il quale arriva praticamente alle stesse conclusioni, riflettendo sui dati relativi ai movimenti neopentecostali presenti attualmente in Belgio 9, e afferma in pratica che, al di là del carattere più spettacolare dei carismatici, esattamente come i movimenti evangelici tradizionali, questi gruppi “insistono (...) sull’efficacia dell’azione divina nel qui e ora, sulla manifestazione nella quotidianità dei miracoli e dei carismi della chiesa primitiva, in particolare dei doni della profezia, della guarigione e della glossolalia”. Indipendentemente dal nome o dal carisma specifico di ogni singolo gruppo dunque, questo aspetto della partecipazione in prima persona, dell’essere coinvolti in un rapporto diretto con il Signore e del sentirsi, 8. 9. Cf Canova 1987, cap. 4. S.V. AgInter. Dossier nov. 2011. 16 proprio per questo, riscattati come persone in una società che li costringe troppo spesso ai margini e al silenzio, è uno dei moventi principali dell’adesione di strati deboli della popolazione a questo tipo di comunità di fede. Il credente si sente accolto dal gruppo, libero di esprimere le proprie angosce e i propri timori, certo che l’aiuto degli altri fedeli, tramite la preghiera, lo porti a ritrovare serenità e stabilità in una vita già abbastanza precaria dal punto di vista materiale. Come scriveva bene LANTERNARI (1994:41): “al male del mondo l’individuo aderente al gruppo carismatico contrappone la sua fede avvalorata dalla partecipazione rituale del gruppo stesso, e nel crisma di una incondizionata fiducia nelle potenzialità salvifiche del proprio gruppo”. Uno dei punti di forza del neopentecostalismo, che da questo punto di vista si discosta dai movimenti evangelici e pentecostali più tradizionali, si trova in quella che viene definita teologia della prosperità, secondo la quale il male peggiore del mondo, il demone dei demoni, sarebbe quello che induce gli esseri umani a rassegnarsi alla miseria10. In questa prospettiva Dio vorrebbe il bene non solo psico-fisico, ma anche materiale dei suoi fedeli. Il suo rapporto con il singolo sarebbe diretto e governato da una regola che si potrebbe riassumere con il do ut des di romana memoria: tanto più il fedele dimostra nei fatti concreti della propria vita (nelle opere di carità, nella partecipazione alle spese della comunità tramite la decima – su questo punto torneremo più avanti –, nel rispetto dei dieci comandamenti e nel mantenimento, in generale, di un comportamento irreprensibile), tanto più Dio gli sarà vicino, ricolmandolo di grazie e benedizioni, spirituali e materiali. I gruppi in cui è adottata questa teoria di fondo sono facilmente riconoscibili anche agli occhi di un estraneo, poiché sono quelli in cui soprattutto il leader e coloro che rivestono posizioni di rilievo nelle dinamiche di gestione della chiesa (diaconi, diaconesse e “anziani” – anche su questo torneremo più avanti) si distinguono dagli altri per un’evidente “riuscita” sociale. Indossano infatti abiti e scarpe costosi, guidano auto nuove e di grossa cilindrata, esibiscono famiglie felici, sono sani, e in breve vivono in una condizione economica e sociale agiata. Come scrivono anche PACEBUTTICCI (2010: 108): “L’allegria, l’energia e l’eleganza diventano i simboli del successo personale garantito attraverso il potere dello Spirito”. 10. Cf AgInter nov. 2011:6. 17 Questo elevato tenore di vita dei pastori, rispetto a quello della maggioranza dei fedeli, che, soprattutto in contesto migratorio, provengono spesso dalle fasce più basse della popolazione, sebbene in molti casi si tratti di persone anche molto istruite, è per i proseliti il segno tangibile della verità del messaggio proclamato dal leader, il quale, proprio per il suo comportamento retto, dev’essere evidentemente premiato da Dio in questo modo. Questa interpretazione dei fatti è uno stimolo per il credente a perseverare nel suo cammino di fede e un incentivo a non arrendersi nei momenti bui della vita, che a questo punto tenderà sempre a giustificare come dovuti a sue specifiche mancanze nei confronti di un Dio buono, ma allo stesso tempo esigente. Al di là di quella che è la teologia della prosperità e di quelli che sono i contenuti più strutturati e derivanti dal retaggio protestante, evangelico e pentecostale, molti sono gli elementi di carattere popolare e sincretico presi direttamente dalle religioni tradizionali del contesto culturale d’origine, sia esso africano, afro-americano o amerindio, che si possono trovare nei credo di questi gruppi. Laddove infatti il movimento ruota attorno alle ideologie e al carisma specifico di un leader che in qualche modo deve distinguersi dagli altri per giustificare la fondazione di un movimento indipendente, o ancora, e inevitabilmente, laddove ogni singolo membro del gruppo ha la libertà di interpretare da sé il libro sacro, di leggerne le pagine in rapporto alla propria vita e di esprimersi di fronte a tutta l’assemblea, perché, come chiunque altro, pastore o pastora compresi, anche lui può entrare in contatto diretto con lo Spirito e lo Spirito può scegliere di servirsi proprio di lui per comunicare con gli altri fedeli del gruppo, è chiaro che la via è aperta all’ingresso nel culto di elementi che poco o nulla hanno a che vedere con il cristianesimo in quanto tale. Di questo avviso è anche CANOVA che già alla fine degli anni ’80, riguardo ai movimenti evangelici e pentecostali dell’America latina, scriveva che “le loro celebrazioni danno la possibilità ad ognuno di esprimersi e di partecipare in modo attivo al culto. Si concede in tal modo un grande spazio alla cultura popolare” 11. Si vedrà più avanti che praticamente tutti i gruppi che sono stati oggetto delle nostre osservazioni presentano caratteristiche riconducibili proprio ad un mondo tradizionale che dovrebbe essere estraneo al cri- 11. Canova 1987:34. 18 stianesimo, o per lo meno al cristianesimo cattolico: espressività teatralmente esagerata del leader, risposte emotive spesso incontrollate dei fedeli, ricorso a pratiche di liberazione dal malocchio o dalla stregoneria, stati alterati di coscienza, in qualche caso crisi psicosomatiche interpretate come sintomi di una possessione spiritica e infine fenomeni di glossolalia. Ad un primo sguardo verrebbe la voglia di liquidare tutte queste manifestazioni come elementi devianti e inconsistenti, incapaci di attirare e di convincere troppe persone, casomai pensate per ingannare pochi ingenui, creduloni e analfabeti, ma per non arrivare banalmente a queste facili conclusioni è bene ricordare che tutti questi fenomeni erano stati documentati anche in Italia alla fine degli anni ’50 da Ernesto DE MARTINO, che li aveva visti vivi e rimodellati in molti culti devozionali cattolici della Lucania e che, come documenta LANTERNARI12, cominciano normalmente a regredire nel momento in cui la psichiatria si sviluppa sul territorio anche tra le fasce meno istruite della popolazione. Detto questo, va da sé che quando si parla di comunità di migranti, che talvolta sono poco istruiti, e che, anche quando molto colti, provengono comunque da aree culturali impregnate di un senso magico molto forte, in cui il problema psichiatrico, così come quello della dipendenza dall’alcool o dalla droga, sono di fatto negati e giustificati con la possessione da parte di uno spirito maligno o di un defunto malevolo13, nel movimento religioso sincretico si troveranno anche strumenti per dare una risposta concreta e una speranza di liberazione da questo tipo di disagi. La maggior parte dei movimenti religiosi evangelici, neo- e pentecostali nel territorio di Bergamo è di questo tipo e, sebbene a qualcuno possa sembrare tutto sommato inutile voler indagare più a fondo un fenomeno già largamente documentato nella letteratura specifica, anche se riferito ad altri contesti e ad altri paesi, l’Ufficio Migranti della Diocesi, unitamente alla Caritas diocesana, ha ritenuto importante fare un passo avanti concreto, non solo per capire meglio la situazione effettiva del territorio, ma anche per cercare in qualche modo di aprirsi ai migranti, andando incontro, ove possibile, alle loro aspettative e alle loro necessità, soprattutto sotto il profilo spirituale. La riflessione sulla questione della spiritualità dei migranti nella Diocesi di Bergamo, come già osservato, è iniziata qualche anno fa, con 12. Cf a questo proposito Lanternari 1994 cap. 2. 13. Si veda su questo Micheli 2011 a) e b). 19 il primo rapporto delle ACLI (2008) sui luoghi di ritrovo delle diverse chiese e comunità. Da quel primo documento uscivano di fatto tre informazioni fondamentali: a) che tutti i movimenti religiosi legati a leader carismatici e pentecostali sono, per così dire, molto volatili e instabili, nascono come associazioni culturali e si estinguono spesso nel giro di pochi anni, seguendo gli spostamenti del leader; b) che la maggior parte dei frequentatori di quei gruppi sono migranti latinoamericani e africani 14; c) che spesso le nuove chiese hanno una base etno-linguistica ben chiara: da un lato ci sono i latinos, dall’altro i neri francofoni e dall’altro ancora i neri anglofoni e raramente la liturgia viene svolta o tradotta in italiano. L’inchiesta delle ACLI, al di là di un elenco, seppur molto dettagliato, dei nomi dei singoli movimenti, dei pastori, del numero indicativo dei credenti, dei luoghi e dei giorni di ritrovo delle varie comunità, non forniva però in pratica altre informazioni rilevanti. Perciò, visti i numeri, considerato il fatto che in qualche caso ultimamente queste chiese cominciano ad attirare anche fedeli italiani – in molti casi si tratta evidentemente di persone coniugate con immigrati –, e tenuto conto del dinamismo con cui sempre nuovi movimenti si creano praticamente da un mese con l’altro, si è ritenuto importante procedere ad uno studio che mettesse in luce soprattutto le motivazioni di quei fedeli che in patria frequentavano la Chiesa cattolica e che qui invece sono andati a cercare risposte di altro tipo per la loro spiritualità. Un ultimo elemento da considerare, forse il più spinoso e preoccupante, riguarda i molti risvolti oscuri di alcune organizzazioni internazionali malavitose, che usano la facciata del gruppo religioso per occuparsi in realtà di affari che nulla hanno a che vedere con la salute delle anime. Sebbene alcuni elementi interessanti siano usciti in modo evidente in alcune delle interviste fatte per questo lavoro – Jessica e Beauty, entrambe nigeriane e Carlos, boliviano – è bene chiarire fin da subito che rendere conto nel dettaglio di questi aspetti non rientra negli obiettivi primari di questa ricerca. Ciononostante si cercherà di far emergere tutte le pieghe dietro le quali si possono nascondere quei meccanismi psico-cognitivi che possono ingenerare situazioni di sfruttamento o dipendenza eccessiva dal leader, ovvero le condizioni che possono favorire o agevo14. I migranti dell’est sembrano ritrovarsi invece sempre nelle comunità protestanti o ortodosse e non presentano elementi sincretici o innovativi, almeno per quanto ne sappiamo ad oggi, visto che il terreno non è ancora stato indagato. 20 lare un uso illegale dei canali transnazionali della migrazione, che si vorrebbe esclusivamente buona e missionaria. Ciò che è già stato messo in luce nelle poche pagine di questa introduzione non rappresenta dunque che la punta di un iceberg sotto la cui superficie si mescolano problemi antropologici e sociali di diversissima natura e che si cercherà di affrontare nel dettaglio nelle pagine che seguiranno. Il lavoro è suddiviso in 5 capitoli. Nel primo è presentata la metodologia adottata per il reperimento del materiale di prima mano. Nel secondo sono discussi gli elementi cognitivi e culturali del contesto tradizionale di partenza dei migranti africani e latinos, in modo da fornire immediatamente una chiave di lettura del loro modo di rapportarsi alla dimensione religiosa nel quotidiano. Il terzo capitolo contiene invece una discussione dettagliata degli elementi sincretici che garantiscono una continuità importante per il fedele tra la sua religiosità tradizionale e il culto cristiano 15. Oltre a ciò vi è anche un tentativo di analisi dei motivi per cui la scelta del migrante medio ricade sulla frequentazione di questi gruppi piuttosto che su quella della parrocchia cattolica. Nel quarto capitolo si mette in luce l’importanza del “sentirsi parte” di un gruppo di persone, del “sentirsi accolto”, per il migrante che si ritrova lontano e isolato dal suo contesto di origine, molto spesso catapultato in una società che lo marginalizza e lo ignora. Il quinto capitolo è invece dedicato all’analisi delle riserve che i migranti esprimono nei confronti della Chiesa cattolica e dei movimenti sincretici, nonché dei loro rappresentanti sul territorio di Bergamo. Concludo questa introduzione con una storia vera, di cui non fornirò tutti i dettagli per ovvie ragioni di riservatezza, ma che a me è parsa estremamente significativa delle diverse dimensioni implicate nel fenomeno “nuove chiese” e che lascio a chi di dovere il compito di verificare e di sondare. 15. Sull’importanza del sostrato religioso pre-cristiano anche Pace-Butticci (2010: 16) scrivono: “Il pentecostalismo è probabilmente un plesso di una lunga storia, non solo del cristianesimo, ma di un’evoluzione non lineare di credenze più profonde, che vengono prima del cristianesimo stesso”. 21 Nei mesi di settembre-ottobre 2011, la Diocesi di Bergamo, come molte altre sul territorio italiano, in collaborazione con alcune cooperative sociali, si è detta disponibile a dare alloggio e assistenza a un certo numero di migranti arrivati sulle spiagge di Lampedusa con i barconi fatti partire in fretta e furia da un Gheddafi in difficoltà e da una Libia diventata improvvisamente scenario di guerra. I primi giorni di questa accoglienza sono trascorsi, com’era ovvio, in un clima di relativo caos. Troppe erano le cose da fare e da organizzare e troppi i problemi concreti (alloggio, vitto, documenti) da risolvere nel più breve tempo possibile. Sta di fatto che la sorveglianza di chi entrava ed usciva dai centri di accoglienza non rappresentava un problema di primaria importanza per gli operatori. È stato in queste circostanze che un sedicente pastore di uno di questi gruppi carismatici si è presentato nel luogo in cui era stato accolto un gruppo di donne nigeriane e si è offerto di dar loro assistenza spirituale, invitandole a partecipare alle riunioni di culto della sua chiesa. Qualcuna delle ospiti del centro ha accettato l’invito e ha cominciato a frequentare la chiesa del pastore. Non so dire, perché non mi è stato riferito, quante fossero in realtà queste donne, anche se in generale si parla di un gruppo di circa 7, 8 elementi, né per quanto tempo esse abbiano continuato a frequentare la chiesa, ma sta di fatto che ad un certo punto al centro di accoglienza è scoppiata una lite furibonda e alcune di queste donne hanno spiegato alle operatrici presenti che non sarebbero più andate alle funzioni insieme alle altre perché per loro era diventato evidente che “quel pastore non era una persona di Dio”. Fine della storia. Forse, per capire meglio, è bene aggiungere che oggi alcune di quelle stesse donne si trovano ancora al centro di accoglienza della Caritas, e che nello stesso luogo vivono altre donne che pur non essendo state a quel tempo coinvolte direttamente nella storia, erano già presenti quando i fatti si verificavano. Ebbene, oggi nessuna di quelle donne sembra ricordare. Se si chiede loro notizia degli avvenimenti di quei giorni, rispondono con l’aria svagata di non aver mai saputo, di non essere state presenti, di non avere alcuna idea del problema. Non si potrà mai sapere come siano andate esattamente le cose e quale sia stato il motivo che ha spinto alcune delle donne ad avere una reazione così violenta e a dire quelle parole riguardo al pastore, ma sta di fatto che qualcosa deve essere successo, e che quel qualcosa è evidentemente poco chiaro. 22 Per dare un elemento in più per la riflessione su questo punto, si tenga conto che in Italia, così come nel resto d’Europa tra l’altro, per dar vita ad un movimento religioso di qualsiasi natura, basta registrarlo alla Camera di Commercio come Associazione Culturale. Non ci sono in realtà controlli di nessun genere e molto spesso purtroppo aprire una nuova chiesa è il modo più facile per dare un’identità accettabile ad un’organizzazione che di religioso ha ben poco. Se il lettore ritiene che questa lettura dei fatti sia troppo fantasiosa, forse è bene ricordare che la cronaca di tutti i giorni è piena di storie di abusi e violenze perpetrati soprattutto su donne e bambini all’interno di movimenti religiosi settari, anche di matrice cristiana. A questo proposito, l’ultima che mi è capitata sotto gli occhi è stata pubblicata su “Il Fatto Quotidiano” di martedì 10 luglio 2012 (p. 12) e parla di una ragazza di 31 anni, Juliana, vittima di abusi per 23 anni all’interno della chiesa Family of Love, nata negli Stati Uniti d’America per opera del pastore David Berg, diffusa oggi in tutto il mondo e conosciuta anche sotto il nome di “Setta dei figli di Dio”. Juliana, nella sua vita all’interno della setta, ha subito umiliazioni di ogni genere, è stata picchiata e costretta fin da bambina ad avere rapporti sessuali con i membri adulti del gruppo, nel quale la pedofilia e l’incesto erano pratiche incoraggiate, per rispondere alla Legge dell’Amore, secondo la quale “nel sesso tutto era lecito agli occhi di Dio”. Per chi volesse sapere di più della storia di Juliana, che oggi gestisce una scuola d’inglese in Italia, rimando al libro da lei stessa scritto Not without my sister 16, che, come riporta il quotidiano, è stato fondamentale per smascherare la vera natura della setta. Questo non per dire che tutti i movimenti religiosi legati a leader carismatici abbiano qualcosa da nascondere, anzi, personalmente ritengo che la maggior parte di essi nasca in assoluta buona fede come risposta alla ricerca spirituale di un gruppo di persone, ma non si deve dimenticare che anche questa è una possibilità e che forse è bene tenerlo presente per evitare brutte sorprese quando si decide di instaurare con essi un dialogo costruttivo. 16. S. V. Jones K., Jones C. & Buhring J. (2007) in bibliografia. 23 I. METODOLOGIA DELLA RICERCA. La ricerca presentata in queste pagine, finanziata dall’Ufficio Migranti e dalla Caritas della Diocesi di Bergamo, è frutto di sei mesi di lavoro sul terreno, durante i quali sono state effettuate 24 interviste e si sono realizzate 11 osservazioni partecipate di momenti di culto in 10 gruppi neopentecostali, battisti ed evangelici differenti, i cui pastori ed i cui membri, quasi tutti migranti, si possono grossolanamente distinguere in 4 categorie: 1) i latinos, (facenti capo soprattutto a movimenti evangelici e battisti), 2) gli africani anglofoni (riuniti soprattutto in gruppi neopentecostali e carismatici), 3) gli africani francofoni (partecipanti soprattutto a gruppi neopentecostali e carismatici) e infine 4) gli etiopi ed eritrei, unico gruppo tutto sommato compatto da un punto di vista culturale e unito in una Chiesa Evangelica di stampo senz’altro più tradizionale. La maggioranza delle interviste e delle osservazioni è stata realizzata da tre volontarie: Livia Brembilla, laureata in sociologia, dipendente della Caritas diocesana, che si è occupata dei gruppi africani francofoni; Estrella Quiroga, boliviana, psico-pedagoga, che ha tenuto i contatti con i gruppi di latinos; e Silvia Beretta, già coinvolta nelle attività delle ACLI, che si è invece dedicata ai gruppi africani anglofoni. Gli incontri restanti sono stati invece curati da me e dal responsabile del progetto, don Mario Marossi. A parte il caso di Estrella, madrelingua spagnola, Livia e Silvia sono sempre state accompagnate nei loro incontri da mediatori selezionati dall’Ufficio Migranti, da un lato per facilitare il loro accesso alle comunità e dall’altro per avere a disposizione interpreti in grado di rendere bene in italiano sia i concetti espressi durante i momenti di culto (solo in 25 uno dei gruppi incontrati – s.v. LiviaOss1 – la lingua usata era esclusivamente l’italiano; mentre in altri due casi – EstrellaOss1 e 4 – essa si alternava allo spagnolo), sia le parole della maggior parte delle persone intervistate. Prima di procedere con le interviste, le volontarie hanno seguito un seminario di formazione sulle caratteristiche della religiosità tradizionale africana e latinoamericana, in modo da avere un’idea chiara del contesto culturale di partenza delle persone che avrebbero incontrato nel corso del lavoro e per tutta la durata del periodo di raccolta dei dati sul terreno, il loro confronto con me, come direttrice scientifica della ricerca, è stato assiduo e proficuo. La scelta di usare i metodi della ricerca qualitativa (l’intervista libera e semi-strutturata e soprattutto l’osservazione partecipante), escludendo quelli della ricerca quantitativa (i questionari estesi e chiusi e le statistiche) è stata fatta a priori, data la delicatezza dell’argomento e le caratteristiche forzatamente soggettive delle motivazioni che spingono un fedele a scegliere di frequentare un movimento religioso piuttosto che un altro. Come si può vedere dalle griglie delle interviste e delle osservazioni, riportate in allegato 17, c’era un nucleo centrale di elementi che contemplava i nostri interessi principali, ma gli interlocutori erano poi lasciati liberi di divagare, di aggiungere informazioni riguardo ad argomenti che in prima analisi non erano stati considerati importanti, ma che poi di fatto si sono rivelati significativi, di spostare l’attenzione sugli argomenti che loro stessi ritenevano più pertinenti e infine di escludere quegli aspetti che invece non suscitavano in loro alcun interesse. Sebbene le interviste realizzate non siano tantissime, abbiamo giudicato che fossero sufficienti per avere un quadro ragionevolmente completo del nostro oggetto di ricerca, un po’ perché i concetti usciti dai primi incontri cominciavano a ripetersi, ma soprattutto perché la profondità della confidenza che in molti casi siamo riuscite ad ottenere con i nostri interlocutori è stata tale da permetterci di portare alla luce anche dettagli e aspetti secondari del fenomeno, in alcuni casi inattesi. I sei mesi di inchiesta sul terreno sono stati intervallati costantemente da riunioni di gruppo, che servivano a correggere e affinare la direzione dell’indagine alla luce degli elementi che via via venivamo sco- 17. Allegati 1 e 2. 26 prendo e a discutere insieme eventuali dubbi relativi al metodo o al modo più efficace di procedere in situazioni particolarmente difficili. Sempre per la delicatezza dei temi affrontati e per non compromettere il rapporto di fiducia che era necessario instaurare con gli interlocutori (in generale diffidenti nei confronti di registratori e fotocamere) non è stato quasi mai possibile registrare le interviste, che tuttavia sono state sempre ricostruite in dettaglio non appena le operatrici rientravano dagli incontri. Tutto il materiale così raccolto è a disposizione di chiunque volesse prenderne visione, sia in formato cartaceo, sia in formato elettronico, presso la sede dell’Ufficio Migranti, in via del Conventino 8, sia sul sito internet www.migrantibergamo.org. Allo stesso modo e nello stesso luogo sono consultabili anche tutti i resoconti delle osservazioni partecipanti dei momenti di culto a cui abbiamo avuto modo di assistere. Tutte le osservazioni e le interviste realizzate con i gruppi di latinos, di africani anglofoni, e di etiopi ed eritrei sono state realizzate nella Diocesi di Bergamo, mentre tutto il lavoro relativo ai gruppi frequentati da africani francofoni è stato svolto in provincia di Lecco, talvolta in aree non pertinenti alla Diocesi di Bergamo, e questo perché tale è la divisione territoriale dei movimenti anglofoni e francofoni e perché i fedeli francofoni residenti nel territorio di Bergamo, piuttosto che unirsi a gruppi anglofoni o latinoamericani, preferiscono spostarsi, anche di molti chilometri, per raggiungere i luoghi di culto di quello che considerano il loro gruppo di appartenenza. Questo fenomeno ci è parso estremamente interessante, soprattutto per le forti implicazioni etno-linguistiche che comporta, e di conseguenza abbiamo deciso, in accordo con il responsabile del progetto, don Mario Marossi e con l’Ufficio Migranti, di procedere investigando anche quel tipo di realtà, sebbene nel concreto essa si trovi spesso al di fuori del territorio di competenza della Diocesi di Bergamo. Escludere questa dimensione avrebbe significato scegliere di non considerare i comportamenti di una fetta importante dei migranti cristiani che oggi sono nostri vicini di casa e ciò sarebbe stato assurdo, vista la finalità primaria di questo progetto, che era quella non solo di descrivere, ma anche e soprattutto di incontrare per davvero i migranti cristiani esattamente lì dove essi si trovano. 27 II. PER CAPIRE IL FENOMENO: UNO SGUARDO AL CONTESTO DI PARTENZA Quando si indaga un qualsiasi fenomeno che riguardi l’essere umano, non si può fare a meno di considerarlo all’interno del suo contesto originale. L’uomo infatti, con i suoi comportamenti e le sue convinzioni, non esiste in astratto e ciò che pensa e ciò che fa è in larga parte determinato da ciò che pensano e fanno le persone intorno a lui, così come dagli strumenti che il suo contesto gli offre per poter leggere i dati che gli vengono dal mondo che lo circonda. I meccanismi che regolano i processi cognitivi, ad esempio, sono fortemente influenzati dal fatto di nascere in una società tecnologicamente avanzata, dove la trasmissione del sapere procede per definizione e le leggi del metodo scientifico sono una realtà consolidata e universalmente accettata, oppure in società dalla tecnologia povera, in cui il sapere si tramanda oralmente o per ostensione, si apprende per mimesi e il pensiero classificatorio e scientifico non sono contemplati. Chi vive in un contesto in cui la scolarità è obbligatoria anche fino ai 16 anni, inserisce ogni accadimento del reale negli schemi che conosce e che sa gestire, regolati dalle leggi della fisica, della matematica e della chimica, mentre chi non ha avuto accesso alla scuola e non ha mai sentito parlare di Darwin, di Linneo o di Einstein, usa una razionalità diversa, basata sulle credenze e sul sistema di valori tradizionali che gli sono arrivati più o meno intatti, dopo essere stati tramandati di generazione in generazione dai suoi antenati, avendo come punto di partenza una visione del cosmo che il più delle volte non distingue il piano mistico, immateriale, da quello tangibile, materiale. Non è una questione di quantità, cioè, non è che il primo soggetto sia più razionale del secondo che lo è meno. Si tratta piuttosto di una que28 stione di qualità. I due soggetti sono razionali uno quanto l’altro, perché il loro equipaggiamento basico per conoscere e decodificare il mondo è il medesimo (entrambi infatti sono dotati di vista, odorato, udito, tatto e gusto ed entrambi hanno sinapsi che funzionano secondo i medesimi meccanismi neurobiologici), ma il fatto è che il loro processo di rielaborazione dei dati è diverso ed è fortemente condizionato dalle premesse che ciascuno ha nel proprio bagaglio culturale. L’uno crede nelle regole scritte nei libri e agisce di conseguenza, l’altro crede nelle storie mitologiche della sua gente e continua ad agire di conseguenza. Il primo è certo di poter prevedere gli eventi sulla base delle leggi che conosce, mentre il secondo è convinto che non si possa astrarre una conseguenza da una premessa, poiché ciò che regola il mondo non è la Natura, bensì qualcosa di ultraterreno e incomprensibile all’uomo e, come tale, imprevedibile. Sostenere che il primo sia un soggetto razionale e ragionevole, mentre il secondo una persona irrazionale e irragionevole equivarrebbe a dire che i primi medici greci, come Ippocrate di Cos, o molti dei loro successori, almeno fino al Seicento, che ancora consideravano basilare la teoria degli umori, erano ugualmente irrazionali e irragionevoli, mentre non si può negare che nei fatti essi abbiano rappresentato un passaggio obbligato per l’evoluzione del pensiero scientifico così come lo conosciamo oggi. È importante capire quanto sia fondamentale questo concetto, poiché altrimenti affrontare un tema delicato come quello della religiosità potrebbe far venire la tentazione di prendere alla leggera problemi anche molto seri, derivanti da convinzioni che non condividiamo e che una volta tolte dal loro contesto d’origine risultano incomprensibili18. Considerata questa premessa, spero dunque sia chiaro che non c’è nulla di irrazionale nel fatto che una persona possa ritenere che tutta la sua vita, gli accadimenti positivi, così come quelli negativi siano riconducibili a qualche cosa che avviene in un mondo parallelo e sovrannaturale e che, ad esempio, le cose buone siano considerate premi di una divinità amica e le cose meno buone punizioni di una divinità offesa o collerica. Nel pensiero tradizionale, sia esso africano, amerindio, ma anche italiano contadino, almeno fino ad una cinquantina di anni fa, come di- 18. Cf. su questo tema Crevatin (2007). 29 mostrano i preziosissimi lavori di Ernesto DE MARTINO19, il mondo del reale è costituito da due piani distinti, ma costantemente intersecati, che scivolano l’uno sull’altro e che possiamo distinguere come il terreno e l’ultraterreno, o come l’aldiqua e l’aldilà. In molte lingue africane questa distinzione è talmente importante che esistono due etichette diverse per riferirsi all’uno o all’altro (cf CREVATIN 2007 e MICHELI 2006 e 2011). Per i kulango di Nassian in Costa d’Avorio, per esempio, drunya (< Arabo dunya via le lingue Mande) è la parola che significa terra, mondo terreno, aldiqua, mentre duunkò indica il mondo ultraterreno. La cosa più interessante però è che la stessa etichetta, duunkò, si usa per indicare, nel mondo terreno, ogni tipo di spazio non antropizzato, esterno al villaggio (che è la sede centrale dell’attività umana considerata sociale), abitato dalle bestie selvatiche e dagli esseri sovrannaturali, siano essi buoni o cattivi, e frequentato esclusivamente da quelle persone come gli stregoni, gli indovini, i cacciatori, i guaritori tradizionali, le ostetriche (per sotterrare la placenta di un nuovo nato, nell’intento di restituire a Terra la forza vitale sprigionata nel parto), e i seppellitori di cadaveri, che, per i ruoli che rivestono, sono considerati in contatto con i due mondi, quello dei vivi e quello dei morti, quello terreno e quello ultraterreno, e proprio per questo sono allo stesso tempo temuti e rispettati da tutti gli abitanti del villaggio. Nel duunkò, che come si è visto non è solo uno spazio invisibile, ma anche un insieme di luoghi concreti estranei all’attività umana socializzante, si muovono inoltre tutte le forze agenti dell’universo, che comprendono Yego, cioè l’essere supremo, Dio, gyinaun (<Ar. jinn via le lingue Mande), cioè gli spiriti del verde e in generale quegli esseri di natura sovrannaturale che possono interagire con gli esseri umani, usògò, gli spiriti dei defunti, soprattutto degli antenati, che possono voler comunicare con i loro discendenti. In un sistema così intricato di rapporti bidirezionali tra i due mondi, è chiaro che diventa impossibile per una persona scindere il naturale dal sovrannaturale e di conseguenza inopportuno considerare la vita umana come qualche cosa che si può condurre ragionevolmente senza rispettare le norme della religione (tradizionale), le uniche capaci di insegnare come gestire i rapporti tra i due piani del reale senza meritarsi qualche castigo o soccombere ai capricci di uno spirito dispettoso. 19. Cf ad esempio De Martino (2002, II ed.). 30 Per questa ragione, come scriveva SANNEH (in WALLS & SHENK eds 1990: 64), è profondamente vero che: “La realtà africana è radicata nel paradigma religioso e si esprime in un complesso di rituali e simboli che, insieme, pervadono l’intera esistenza umana”. Per comprendere fino in fondo lo spessore ideologico nascosto sotto questa costruzione, bisogna però fare un altro passo avanti e considerare anche il modo in cui l’essere umano si vede inserito in questo sistema di piani sovrapposti. Sempre secondo il pensiero kulango, ad esempio, l’uomo è costituito da quattro diverse componenti: 1) il corpo, tògò; 2) l’anima vita, e cioè una sorta di mezzo immateriale che viene dato in dotazione a ciascuno al momento della nascita, che gli permette appunto di vivere in questo mondo e scompare nel momento della morte, la mayò, 3) la parte immortale, l’anima vera e propria, lo spirito agente, che viene dal villaggio degli antenati e lì è destinato a tornare, l’usè (singolare di usògò, termine usato poco sopra per indicare, guarda caso, gli spiriti degli antenati); 4) la forza vitale, che rappresenta la potenza dell’universo, la quale risiede in ogni creatura vivente, sia essa di questo o dell’altro mondo, e che è la materia stessa di cui è costituito il Dio supremo, volontà agente, energia e, appunto, soprattutto vita nella sua forma più perfetta, kpayò. Quest’idea dell’esistenza di una forza vitale che governa l’universo è presente praticamente in tutte le culture africane ed è da sempre stata messa al centro anche dei discorsi dei teologi cattolici che cercano di comprendere la natura del pensiero e dell’agire religioso dell’africano tradizionalista. A questo proposito anche BUJO (1988: 84), relativamente a TEMPELS, il primo francescano belga ad occuparsi di teologia per l’Africa, scrive che: “Nel suo manuale la philosophie bantoue (Elisabethville, 1945) egli analizza gli elementi fondamentali della tradizione africana (...). Uno dei risultati più importanti (...) è che la ‘forza vitale’ (La force vitale) è l’elemento decisivo per la Weltanschaaung e per la religione africana. (...) azzarda la tesi che il negro-africano ragguagli la forza, ovvero la forza vitale all’essere. Solo così, secondo Temples, si può capire tutta la filosofia, la religione dell’africano, e quindi tutte le sue azioni e i suoi comportamenti”. Gli esempi riportati sono africani pour cause, essendo io un’africanista, ma di fatto gli stessi concetti si ritrovano anche nella cosmovisione di molte popolazioni indigene dell’America Latina, dell’Asia e dell’Europa contadina e popolare fino ad epoche piuttosto recenti. 31 Sulla base di queste premesse, è evidente che, per chi condivide questo modo di vedere le cose e il mondo, diventa molto facile credere che ogni evento positivo o negativo sia da imputare ad una causa e ad un agente che si trovano nel mondo dell’aldilà 20, e per questo motivo non stupisce più il fatto che egli si rivolga agli specialisti di quel mondo (gli stregoni, gli indovini, i sacerdoti tradizionali) per capire che cosa può fare per sistemare il suo problema. Va aggiunto che il fatto di rivolgersi ad uno specialista X, nel pensiero tradizionale, non implica forzatamente il fatto di non potersi rivolgere ad un altro specialista Y, esattamente come l’itinerario terapeutico di un malato occidentale non implica il fatto che uno, una volta in cura dal dottor Tal dei Tali non possa decidere, per sicurezza, di chiedere un parere professionale anche al dottor Tal Altro e così via. Ecco perché, e qui ci avviciniamo ad uno dei temi che vedremo essere ricorrenti nella nostra ricerca, a questo punto non deve stupire nemmeno il fatto che un credente che si dichiari cattolico, finisca per non sentirsi per nulla a disagio, se a un certo punto decide di frequentare contemporaneamente anche un movimento religioso diverso, carismatico, pentecostale, che spesso conserva tratti e pratiche che derivano da un sostrato culturale popolaresco, o addirittura alle pratiche tradizionali della sua terra tout court. Molte sono le testimonianze di questo che ci sono state date dai nostri interlocutori nel corso della ricerca sul terreno. S. R. ad esempio, 38 anni, di origini boliviane ci dice: “Come ho detto frequentavo la Chiesa Evangelica e qui sono diventata cattolica, ma qualche volta mia zia mi porta nella sua chiesa e a volte mi sento triste e vorrei tanto piangere. Mi mancano quelle persone che conoscevo e come era la vita della comunità evangelica nel mio paese” 21, mentre Jessica (nome fittizio) parla in questo modo della sua esperienza religiosa: “Io adesso frequento la parrocchia di Grassobbio, quando non sono a Londra. Quando sono qua frequento la chiesa cattolica, quando sono a Londra la Chiesa Evangelica, che è diversa da quelle che ci sono qui”. Non credo sia il caso di andare avanti con l’elenco di tutti i casi che abbiamo riscontrato, basti dire che, su 24 persone intervistate, se si esclu- 20. Sul problema della causalità rimando il lettore a Crevatin (2007). 21. EstellaInt1. 32 dono i pastori, solo due (una ragazzina boliviana di 13 anni e un ragazzo ghanese di 20) dichiarano di aver sempre frequentato la medesima chiesa sia nel paese d’origine, sia in Italia. Di nuovo BUJO (1988: 102-103) conferma il dato e scrive a questo proposito: “In molte sette e chiese indipendenti d’Africa ci sono elementi della religione africana che non possono sfuggire all’attenzione (la fede nel potere delle parole, il ruolo della donna, per esempio, nel Kimbanghismo 22). Perfino nelle chiese cristiane ci sono dei membri che, in casi estremi della vita, si rivolgono al veggente o allo stregone, senza perciò voler cessare di essere cristiani”. Durante la nostra esperienza sul campo abbiamo incontrato molti elementi che richiamano queste parole nel corso delle osservazioni di molte cerimonie. In molti casi infatti, soprattutto nelle chiese africane, anglofone e francofone, esiste l’idea che si debba pregare (o cantare) forte, cioè ad alta voce e con convinzione, perché, come dice ad esempio Tina, nigeriana, “la gente prega forte per aiutarti (...). Prega ad alta voce, canta, e anche balla... sai quando senti dentro il potere dello spirito? Che ti si muove tutto dentro? Ti è mai capitato? Quando preghi forte, tutti pregano forte, tutti credono, lo spirito arriva e ti entra dentro. Il suo potere (power) entra in te e tu diventi più forte. Non importa che problema hai, se lo spirito viene dentro di te, tu sei salva... e la gente, con la sua fede, ti aiuta a chiamare lo spirito” 23. Le parole hanno dunque un potere salvifico, quelle giuste, pronunciate con convinzione, magari da tutta l’assemblea riunita, richiamano lo Spirito e lo inducono, in qualche modo a soddisfare i bisogni di chi lo sta invocando. In molti casi a stimolare questo modo di pregare, a sostenere la preghiera “potente”, sono proprio le donne, che si vedono investite del ruolo di diaconesse (s.v. ad esempio LiviaInt4 e LiviaOss5), o addirittura membri privilegiati dei gruppi di preghiera considerati più efficaci, addetti a dar manforte al pastore in casi di estremo malessere di uno dei fedeli, che può anche essere causato da una possessione demoniaca. A questo proposito è interessante quanto ci è stato detto da Margaret, nigeriana, che racconta: “In questi casi c’è un gruppo, i “prayer war22. La chiesa Kimbanghista, nata negli anni ’20 dello scorso secolo per opera di Simon Kimbangu, congolese, ex catechista di una missione battista, profeta veggente e guaritore che proclamava di aver ricevuto direttamente da Gesù Cristo la missione di portare alla sua gente il messaggio della salvezza, impegnato anche politicamente per la liberazione dei neri, conta oggi circa 17 milioni di seguaci. 23. IlaInt1. 33 riors 24 ”, che pregano “forte, forte” per tre giorni senza bere e senza mangiare (...) le persone che hanno il potere di guarire o scacciare demoni non nascono già con questo potere, ma lo fanno crescere in loro con la preghiera e la continua lettura della Bibbia” 25. Riassumendo, così come in un momento specifico della vita quella divinità, quel feticcio, o quello spirito può rappresentare “LA” risposta giusta, allo stesso modo, in un altro momento, esso può non avere più nessuna autorità e la situazione può richiedere l’intervento di un altro agente sovrannaturale, più indicato a risolvere quel determinato problema, ed ecco che la persona, di nuovo, senza provare alcun imbarazzo, abbandona il culto a cui si era anche recentemente convertita per rivolgersi a quello che nella nuova situazione ritiene più opportuno. Questo alternare continuo tra culti diversi è possibile perché la divinità cristiana, nelle tre persone di Dio, di Gesù Cristo e dello Spirito Santo, viene assimilata agli agenti sovrannaturali della cultura d’origine e, nella mente del fedele tradizionalista, si inserisce, senza sconvolgerlo, nell’ordine del famoso mondo ultraterreno di cui abbiamo parlato poco sopra. La conversione, nel tradizionalista, non fa quasi mai seguito ad un ragionamento filosofico, ma avviene in un attimo, a seguito di un evento particolare: un sogno, un’esperienza mistica, un supposto incontro con un antenato o uno spirito sovrannaturale che avviene in un momento in cui il soggetto è in uno stato alterato di coscienza, oppure un evento inatteso, come la guarigione improvvisa da una grave malattia, avvenuta, secondo la persona grazie alle preghiere di qualcuno alla tale o alla tal altra divinità (nel nostro caso a Gesù Cristo o allo Spirito Santo). Dello stesso parere è anche HOLLENWEGER, che in WALLS & SHENK (eds) 1990, a p. 166 scrive: “La maggior parte dei cristiani del terzo mondo è diventata tale attraverso sogni, visioni, apparizioni degli antenati, guarigione e altre esperienza simili, mentre raramente si è convertita in risposta alla catechesi o ai sermoni”. Un caso famoso, comparso sull’Alliance Witness del 1983 a p. 20, e riportato in letteratura da SHANK (in WALLS&SHENK eds 1990: 143) riguardava ad esempio la conversione di una coppia di anziani tradizionalisti del Burkina Faso, che si convertirono senza nemmeno un ripensa- 24. Guerrieri delle preghiere. 25. SilviaInt3. 34 mento una volta convinti che le preghiere dei loro fratelli cristiani li avessero liberati da forze maligne: “i cristiani di un villaggio in Burkina Faso avevano offerto le proprie preghiere per un anziano e per sua moglie, i quali erano perseguitati da spiriti maligni. Il risultato di quelle preghiere fu che per la prima volta dopo diversi mesi la donna riuscì a dormire bene e il giorno dopo il marito lodava Dio per aver risposto alle loro preghiere”. Anche le testimonianze raccolte durante il nostro lavoro con gli immigrati nella bergamasca è pieno di casi simili. Ad esempio, ecco ciò che emerge dal resoconto di un’intervista a Dago, una donna congolese: “(il pastore Florent Acré della Église évangélique - prophétique de la révélation di Dalmine) è un uomo chiamato da Dio. Questo pastore della chiesa di Dalmine sogna molte cose che si realizzano e ha tante visioni che si avverano: ad esempio una volta ha sognato che Dago doveva ricevere due telefonate per lavoro. Dago dice che lei davvero doveva ricevere due telefonate per lavoro ma non ne aveva parlato con il pastore” 26. Ancora, dall’osservazione di una cerimonia presso la chiesa “Family Prayer Followship” di Bergamo: “vi è la testimonianza di una fedele, Cinzia: con in mano il proprio permesso di soggiorno, racconta che dopo due anni in cui era rimasta senza lavoro, nonostante svariati tentativi in Questura, non era riuscita a mettere i propri documenti in regola, ma finalmente dopo aver sognato Mrs Margaret (una predicatrice missionaria in visita alla Chiesa in quell’occasione - ndr) è ritornata in Questura e le hanno detto che era tutto a posto.” 27 Un ultimo elemento che caratterizza in generale la religiosità del tradizionalista è l’unità inscindibile tra la salute del corpo e quella dello spirito. In tutte le culture popolari tradizionali del tipo che abbiamo commentato fino ad ora infatti, nelle quali la contiguità tra i due piani del reale, quello naturale e quello sovrannaturale, comporta un continuo passaggio di energie positive e negative da una dimensione all’altra, la salute della persona, che di fatto si trova a cavallo tra i due mondi, è una questione di equilibrio tra un insieme di forze agenti positive e negative. Di conseguenza quanto più una persona resterà salda alle norme della tradizione, tanto più facile sarà per lei guadagnarsi la benevolenza 26. LiviaInt3. 27. SilviaOss1. 35 e la protezione di spiriti buoni, quanto più invece essa si allontanerà dai comportamenti ritenuti socialmente positivi, tanto più sarà soggetta alle ire degli antenati e delle divinità e, perduta la loro protezione, facile preda degli attacchi di agenti negativi, dannosi e pericolosi (nella lettura cristiana le forze demoniache). Nel pensiero tradizionale si ritiene che tali attacchi si manifestino nella persona tramite la malattia, che può essere fisica, mentale o sociale. Così è di norma considerato causato da agenti maligni un male incurabile come ad esempio un cancro, un ictus invalidante avvenuto in giovane età, o addirittura l’AIDS (nessuno si sognerebbe mai di attribuire all’intervento di un demonio un raffreddore o una banale crisi di malaria), così come si credono dovuti alla possessione da parte di uno spirito maligno un disturbo del comportamento, una forma di schizofrenia o una grave depressione, e infine, si ritengono dovuti all’opera di agenti malevoli tutti gli eventi particolarmente negativi o sfortunati della vita di una persona, come la perdita di un raccolto a causa di un incendio che, ad esempio, interessi esclusivamente quel determinato campo, un incidente grave o un lutto in famiglia 28. Di fronte a questo tipo di lettura è inutile dire che è inevitabile che i culti tradizionali prevedano un momento di “riequilibrio” delle energie positive e negative per la persona, e di conseguenza è inevitabile che anche all’interno di ogni movimento religioso di nuova creazione che si rivolga ad un pubblico proveniente da una cultura di questo tipo siano presenti pratiche, riti, o culti specificamente orientati al ristabilimento della salute globale (dunque fisica, mentale e sociale) del fedele. In un tale contesto la scienza medica in sé, che può essere rappresentata tanto dalla medicina moderna, quanto dall’erboristeria tradizionale, è vista come un mero strumento per curare i sintomi del malato, ma ciò che risulta fondante per sanare il suo spirito e fargli ritrovare un equilibrio reale, che non lo lasci in balìa di facili ricadute, non può che essere la pratica mistica di guarigione o di liberazione spirituale. Tutto ciò porta diversi tradizionalisti a ritenere che in realtà poco importa la materia che si usa per curare, poiché essa può ottenere risultati soltanto se adeguatamente caricata della forza vitale e rigenerante dell’universo e dunque, portando il discorso al suo limite estremo, si ar- 28. Per un esempio dettagliato dell’eziologia della malattia in un contesto africano tradizionale (quello kulango) si veda ad esempio Micheli 2011. 36 riverà a sostenere che, se Dio vuole, una persona può guarire anche senza cure mediche, mentre un’altra è inevitabilmente destinata a soccombere, sebbene sottoposta alle terapie migliori, se solo, in pratica, Dio non ci mette lo zampino. Semplificando al massimo si può dire che si tratta della stessa idea veterotestamentaria del giusto premiato da Dio, che ben si sposa con la già citata teologia della prosperità che caratterizza tanti dei più recenti movimenti neopentecostali, i quali, lo ricordiamo ancora una volta, fanno appello proprio ad un bacino di fedeli che vivono situazioni di frustrazione e di disagio sociale e che di conseguenza hanno bisogno di credere fortemente in una possibilità concreta di un riscatto globale. In ogni celebrazione alla quale abbiamo avuto modo di assistere c’erano persone che pregavano per la guarigione di un congiunto e, riguardo a ciò che si pensa relativamente alla causa del disagio fisico e morale, riporto qui di nuovo le parole di Tina: “Sì, quando io prego e lo Spirito viene, viene anche per guarire... la malattia ti viene perché la tua anima è malata e lo Spirito la può curare. E se lo Spirito la cura, tu guarisci. E più sono le persone che pregano per te e con te, più lo Spirito è costretto ad ascoltare le tue preghiere... non lascia soli quelli che si rivolgono a lui” 29. Questo fatto era già chiaro ad HOLLENWEGER negli anni ’90 (in WALLS & SHENK eds 1990: 166) che a questo proposito scriveva: “Per le chiese indigene non bianche è fondamentale, durante il culto, offrire forme alternative per la guarigione dei malati”. DE SURGY (2001: 274), parlando dell’Église de la révélation des apôtres in Benin, evangelica e neo pentecostale, scrive ad esempio: “coloro che sono affetti da una malattia, che sono in miseria o hanno subìto un fallimento vengono innanzi tutto invitati a chiedere perdono per i propri peccati. Raggruppandosi attorno ad essi, i fedeli presenti allora pregano (...) per loro (...) Li si purifica o si fortifica il loro corpo attraverso unzioni con l’olio santo consacrato dal profeta (...)”. Credere però che il fascino di queste filosofie sia in grado di attirare soltanto persone del terzo mondo (le non-white indigenous people – gli indigeni non bianchi – di HOLLENWEGER) è fuorviante. Si tenga conto infatti dell’enorme forza attrattiva esercitata anche nei paesi dell’occidente tecnologicamente avanzato dai gruppi di rinno- 29. IlaInt1. 37 vamento carismatico e di rinnovamento nello Spirito che tanta parte delle loro sessioni di preghiera dedicano alla guarigione integrale della persona, o si consideri il caso Milingo, che, prima di unirsi al movimento di Moon, già “esiliato” in Italia, aveva fatto migliaia di proseliti tra gli italiani proprio predicando teorie simili. Per chi fosse interessato a saperne di più, Vittorio LANTERNARI riporta in breve tutta la storia (cf. LANTERNARI 1994), ma ciò che più ci interessa qui è una frase dello stesso Milingo che lo studioso cita a p. 292 e che suona così: “Qualunque cosa io voglia usare come medicina per guarire, diventa effettivamente medicina. Colui che guarisce è precisamente Gesù”. Credo che queste parole, a questo punto, si commentino da sole. 38 PARTE I - L’AFRICA. Contrariamente a quanto si crede generalmente riguardo all’animismo delle religioni tradizionali, troppo spesso visto come un confuso insieme di una miriade di divinità senza alcuna relazione l’una con l’altra e senza alcuna gerarchia che preveda una supremazia o un governo dell’una sull’altra, come scriveva già BUJO nel 1988: “Oggi è ormai indiscusso che la fede in Dio nell’Africa nera è stata ed è in maggioranza monoteistica. Ciò significa che la maggior parte delle etnie africane adoravano non degli dei, bensì un Dio unico e questo ben prima che arrivasse il missionario” 30. Il problema dunque, relativamente all’Africa, non è tanto se esista un Dio Supremo unico, considerato il creatore dell’universo, bensì in realtà quale sia il suo ruolo nei confronti della sua creazione e in special modo nei confronti dell’essere umano. A grandissime linee, visto che l’Africa è un continente con più di 1500 etnie diverse e che generalizzare in questi casi è sempre un po’ azzardato, si può dire che le tendenze siano di fatto due: da un lato vi sono quelle culture che credono in pratica nell’esistenza di un Deus Otiosus, cioè di un creatore che, una volta terminata la sua opera di ideazione, si allontana dal mondo e dalle sue creature e se ne disinteressa completamente. Dall’altro lato invece stanno quelle culture che credono in un Dio supremo, creatore e motore dell’universo, che interviene costantemente nelle cose del mondo per regolarne gli equilibri, sia in mo- 30. Bujo 1988: 28. 39 do spontaneo, sia per rispondere alle richieste di qualcuno dei suoi figli. Del primo tipo sono ad esempio i Bawlé, l’etnia più numerosa della Costa d’Avorio, culturalmente molto vicina alle genti Akan delle zone lagunari del Ghana e del Togo, il cui mito di creazione recita così: “Dopo che Nyamien 31 ebbe creato il mondo, con tutte le sue creature, si ritirò a vivere nella volta del cielo. Il cielo e la terra erano in costante comunicazione e gli uomini potevano arrivare al cospetto di Nyamien attraverso una scala che univa i due mondi e vivevano felici. Le donne però ogni giorno, con il rumore dei loro pestelli, disturbavano Nyamien proprio quando faceva il suo riposino pomeridiano. Una volta Nyamien si arrabbiò così tanto per questo, che decise di rompere completamente i ponti con il mondo. Distrusse la scala che conduceva al cielo, si ritirò nella parte più lontana della volta celeste e da quel giorno nessuno lo poté più vedere e cielo e terra furono divisi per sempre”.32 Questo racconto, se da una parte contiene l’affermazione dell’esistenza di un Dio unico, creatore e signore, dall’altra parte offre la spiegazione del perché questo Dio non intervenga mai nelle vicende delle sue creature. In casi come questo le divinità cosiddette minori si moltiplicano, e ognuna di esse è come se si specializzasse in qualcosa di particolare. Ecco dunque comparire divinità che assumono l’aspetto di agenti atmosferici (il tuono, il lampo, il vento ecc.), che sono tutelari di una categoria specifica (i fabbri, le vasaie, i cacciatori), che hanno poteri più ridotti e sono legate ad una funzione particolare, spesso in contatto con gli esseri umani tramite i danzatori di maschere (lo spirito responsabile della fertilità della terra e delle creature, quello legato alla pace e alla guerra, quello che ha in mano la salute e la malattia, il potere politico e la serenità familiare e così via). Del secondo tipo sono invece ad esempio, sempre in Costa d’Avorio i Kulango, i quali sebbene abbiano ereditato dai vicini Abron del regno del Gyaman lo stesso mito di creazione dell’universo, hanno un nome diverso per il Dio supremo, Yego 33, il quale non si può in alcun modo ricondurre alla figura tradizionale del Deus Otiosus. Yego infatti: 1) 31. Nyamien è il nome proprio del Dio creatore, che letteralmente significa Volta Celeste. Lo stesso nome lo si ritrova in tutte le lingue Kwa. 32. Racconto tradizionale molto comune in tutta la regione Bawlé di Sakassou e Abron di Tanda. 33. Già visto a p. 25. 40 viene invocato banalmente nei saluti quotidiani 34; 2) è invocato, insieme agli antenati, dal guaritore tradizionale ogni volta che prepara un rimedio per un malato; e 3) nell’eziologia della medicina tradizionale è visto come uno degli agenti che possono provocare una malattia ad un essere umano per punirlo di un’offesa grave alle regole della tradizione 35. Si è poi già visto che la stessa forza vitale dell’universo, quella kpayò costitutiva di Yego pervade anche tutte le altre creature dotate di anima (quindi gli spiriti, gli antenati, gli esseri umani, ma anche alcuni animali) e di conseguenza si potrebbe quasi arrivare a dire che anche nel pensiero kulango, come nel pensiero giudaico-cristiano, esiste l’idea di fondo che l’essere umano porti dentro di sé la traccia indelebile della creazione e che Dio (Yego) l’abbia voluto in qualche modo plasmare a sua immagine e somiglianza 36. Forse questo potrebbe essere un punto importante da sottolineare nel tentativo di inculturazione del messaggio cattolico nella pastorale per gli africani. Nel pensiero africano tradizionale, a tutela dell’equilibrio cosmico, un gradino sotto il Dio creatore, direttamente in contatto con gli esseri umani, si trovano gli antenati. Essi sono il segno evidente dell’immortalità di una delle parti costitutive dell’essere umano. Morti, continuano a vivere dopo la morte, lasciato il corpo materiale su questa terra, continuano a ricoprire un ruolo attivo e socialmente importante nel mondo dell’aldilà e con il loro intervento possono contribuire a regolare e dirigere anche il comportamento dei loro discendenti in questo mondo. Presso alcune società, si ritiene che essi possano godere di questo status vitale solamente fino al momento in cui qualcuno della famiglia li ricorda nel culto (a quest’idea ad esempio sono legati i vari riti di mummificazione e il culto del teschio presso molte popolazioni bantu dell’Africa centrale), mentre in altri casi, essi perdono gradualmente la propria 34. Quando si congedano la sera, dicendosi “a domani”, i kulango usano la forma “bı́ı dālı Yego bı́ı kasʋ”, che letteralmente significa “Noi preghiamo Yego noi domani” e cioè, con una traduzione un po’ più vicina alle nostre abitudini espressive: “Che Dio voglia che ci vediamo domani”. 35. Sulle credenze kulango s. v. Micheli 2011. 36. Riguardo alla gerarchia tra i diversi tipi di divinità nel Pantheon kulango, s.v. Micheli 2006. 41 individualità, ma restano vivi e attivi nel calderone indistinto degli “abitanti del villaggio degli antenati”. Va sottolineato però che non tutti i defunti sono degni di entrare in questo villaggio di saggi e beati, e che solo chi ha condotto sulla terra una vita irreprensibile secondo le regole tradizionali può essere certo di giungere a destinazione, mentre gli altri sono costretti a vagare come spiriti irrequieti in una sorta di limbo, presentandosi irosi ai propri discendenti, come fantasmi o come révenant, con richieste inopportune, entrando nel corpo dei familiari e spaventando i vivi per capriccio o senso di rivalsa, oppure si ritengono destinati ad estinguersi nel nulla. Questi spiriti di defunti malvagi vengono di norma allontanati da un ritualista specifico, in grado di esorcizzare, se del caso, la vittima di una possessione, o di eseguire riti appropriati per la disinfestazione del luogo o dell’abitazione dove accadono gli incontri indesiderati. Per questo loro ruolo così centrale è impossibile non tener conto degli antenati in qualsiasi lavoro si proponga di arrivare ad una comprensione reale della religiosità africana e all’apertura di un dialogo costruttivo con credenti provenienti dall’Africa. Già nel 1988 BUJO scriveva a questo proposito che: “(...) il posto che gli antenati e gli anziani occupano nella vita del negro-africano deve stimolare il teologo a creare qualcosa di nuovo e a risvegliare in lui l’esigenza di attribuire a Gesù Cristo nuovi titoli ‘messianici’, sicché venga elaborato un nuovo linguaggio teologico. Un modo di creare questo discorso, secondo me, consiste nel dare a Gesù Cristo il titolo di ‘antenato’ par excellence, sicché egli sia il Proto-antenato” 37. E sempre nello stesso anno anche KABASÉLÉ, riflettendo sulla figura degli antenati, commentava: “La figura dell’albero (la vigna) utilizzata da Gesù per indicare il modo in cui la Sua vita passa ai discepoli, ricorda ai bantu la necessità di un contatto permanente con gli antenati, affinché la vita si mantenga intatta: se non si rimane attaccati ad essi, ci si avvizzisce e ci si secca (...)” 38. Per completare il quadro degli abitanti del Pantheon africano tradizionale, restano da considerare i jinn, ovvero gli spiriti del verde, delle cose naturali, delle rocce, dei fiumi, degli alberi e così via. Fare un censimento dettagliato del loro numero e dei loro ruoli, an- 37. Bujo 1988: 118-119. 38. Kabasélé in AAVV 1986 cap. 4: 127. 42 che in una singola comunità, è impresa impossibile, ma ciò che conta per noi qui è semplicemente comprenderne la natura e le caratteristiche principali. Essi sono creature sovrannaturali che risiedono in luoghi specifici della terra e che hanno un contatto diretto e costante con gli esseri umani. Possono essere buoni o cattivi, collaborativi o distruttivi e in ogni caso godono di un culto specifico, che prevede sempre una sorta di rapporto di scambio del tipo do ut des. Possono infatti garantire protezione e fortuna a chi osserva il loro culto e li ricopre di offerte (sempre in generi alimentari, di cui si nutrono in essenza, lasciando al ritualista il consumo della materia) e allo stesso tempo possono rivelarsi estremamente pericolosi e dannosi nel caso in cui qualcuno li offenda, anche inavvertitamente (in questo caso soltanto un consulto con un indovino può portare alla luce la ragione del malessere, della sfortuna o del disagio che la persona sta vivendo e, sulla base di quella, proporre un rimedio adatto in termini di offerta rituale). Inutile tornare qui sul discorso della razionalità, per il quale rimando senz’altro il lettore all’introduzione generale al capitolo ed eventualmente alla bibliografia ivi citata. Sempre nell’introduzione generale al capitolo si è già discussa l’idea del tradizionalista secondo la quale salute spirituale e salute fisica sarebbero indissolubilmente legate e si è già visto che per questa ragione ogni culto, anche sincretico, moderno, che abbia radici in Africa, o che si rivolga ad africani, non può prescindere dal prevedere un momento di guarigione o di liberazione della persona dai mali del mondo, causati da un proprio peccato, o dalla malvagità di qualcuno tanto spiritualmente potente, quanto pericoloso, che opera in stregoneria. Questi momenti di guarigione sono spesso accompagnati da un ricco simbolismo e dalla manipolazione di sostanze ritenute “potenti” e capaci di combattere misticamente il peccato o l’attacco dello stregone o dello spirito demoniaco. Così come nei culti tradizionali fanno la loro comparsa amuleti ottenuti “caricando” di “forza vitale” oggetti di diversa natura, feticci, anelli o bracciali, ma anche decotti di erbe che vanno spalmati sul corpo e che fanno da barriera a qualsiasi agente magico, o ancora olii particolari, ciascuno dei quali serve a proteggere chi li indossa da qualcosa di specifico, allo stesso modo molti dei simboli usati nei riti cristiani vengono di norma caricati delle stesse valenze e ricercati e (ahimè) utilizzati anche da persone che di fatto non sono cristiane. 43 Giusto per fare un esempio non è infatti cosa inusuale trovare, tra le file dei combattenti delle diverse guerre civili del continente, una persona con il rosario, o la croce al collo, o legata fermamente alla canna del Kalashnikov, oppure appesa alla casacca su un cordino al quale sono infilati anche una serie di altri amuleti, sacchettini di pelle dal dubbio contenuto, e pietruzze di vari colori dal potere magico per essi indiscutibile 39. Nel caso dei nostri movimenti sincretici, possiamo senz’altro ritrovare la stessa cosa nell’uso molto comune dell’olio santo, o nell’abitudine di portare alle celebrazioni oggetti personali da far benedire al pastore carismatico e portare a casa come amuleti capaci di garantire una protezione totale della persona e della sua casa dalle forze del male. A questo proposito si vedano le testimonianze raccolte in alcune delle interviste. Margaret, nigeriana, sostiene che: “l’olio (...) viene messo dal pastore sulla fronte del malato spirituale o sulla zona malata del malato fisico” 40. Emeka, anche lui nigeriano, racconta che: “In Africa ha visto portare in una chiesa pentecostale, la Christ Embassy (che ha una sede anche a Nembro, con una scuola per guaritori) una bambina che si diceva essere posseduta: il pastore ha fatto i riti di purificazione con la preghiera e ogni tanto c’erano persone che cadevano in trance; poi alla bambina è stato messo l’olio e l’acqua santa che le chiese vendono” 41. Questo genere di servizi dunque si paga, ma oltre a questo fatto, già fastidioso in sé, la cosa triste è che a questo punto i fedeli, convinti del potere protettivo del loro “amuleto”, possono andare incontro a situazioni paradossali e pericolose. A tal proposito, Jessica, nigeriana, uscita dal giro della prostituzione circa 22 anni fa, ci offre una testimonianza agghiacciante, che qui anticipiamo, ma che commenteremo nell’ultimo capitolo di questo testo: “Non è possibile che un pastore preghi Dio perché le ragazze vadano sulla strada e poi ritornino sane e salve alla chiesa e che una parte del ricavato del loro lavoro vada al pastore. Anche se loro lavorano in strada (e non hanno busta paga ufficiale) il pastore sa che guadagnano bene e devono portare la loro percentuale alla chiesa! Non le aiutano ad uscire dal giro: prendono i loro soldi dicendo loro che con le preghiere e l’olio santo non succederà nulla in strada” 42. 39. 40. 41. 42. S.V. a questo proposito Crevatin 2008. SilviaInt3. SilviaInt5. LiviaInt6. 44 Nell’Africa tradizionalista, ognuno degli amuleti indossati a fini protettivi è legato a una serie di norme molto severe, come ad esempio l’astensione da rapporti sessuali, o da determinati tipi di pietanze e così via. Non rispettare anche solo una di queste norme (in molti casi anche senza la consapevolezza di averlo fatto) nel pensiero del tradizionalista, comporta automaticamente la rottura della protezione dell’amuleto e dunque, ogni volta che un amuleto non funziona, la lettura di chi lo porta non è “non funziona!”, bensì: “ecco, devo aver fatto qualcosa di sbagliato” e di conseguenza non esiste alcuna possibilità di trovare incoerenza in tutto il sistema e di fatto tout se tient 43. È chiaro che la figura del guaritore tradizionale a questo punto diventa centrale e già da anni i teologi cristiani e gli studiosi di antropologia delle religioni stanno riflettendo su questo punto. A questo proposito va detto che la tentazione di accomunare la figura di Gesù a quella dell’uomo della medicina ha affascinato più d’uno. Secondo KOLIÉ 44, che non manca di notare lo stupore con il quale nei Vangeli i contemporanei di Gesù assistono alle sue guarigioni miracolose, talvolta provocate senza alcuna consapevolezza da parte sua, semplicemente per contatto con un suo indumento 45, tre sono le caratteristiche principali che permetterebbero di accomunare la figura del Messia con quella del guaritore tradizionale africano: a) Gesù nelle sue guarigioni tiene conto del contesto sociale del paziente e mira a reinserirlo in esso: portando via la malattia, porta via la marginalità; b) egli cura, ma esige un dono in cambio, e questo dono nel suo caso è la fede; c) proprio come i guaritori della sua epoca, e quelli tradizionali africani di oggi, Gesù è accusato da molti di poter curare non perché di natura divina, ma perché legato a Satana 46. Da questo punto di vista c’è chi insiste nel voler considerare in modo positivo un eventuale sincretismo tra la figura di Gesù e quella del guaritore, con tutto ciò che questo comporta in termini di fede. 43. Cf su questo tema anche Crevatin 2008 e Micheli 2011. 44. Cf Kolié in AAVV 1986 cap. 6: 169-171. 45. L’autore si riferisce al caso dell’emorroissa che tocca le frange del mantello del Cristo (Luc 8,43-59) 46. Per un riferimento culturale concreto cf Micheli 2011 sulla guarigione tradizionale kulango. 45 Di questo parere è, ad esempio, BUJO (1988: 120), il quale sottolinea tra le altre cose anche la dimensione dell’impegno sociale che Gesù manifesta attraverso i suoi miracoli e la sua attenzione ai bisogni delle persone che hanno problemi fisici: “Gesù ha operato miracoli: ha risanato gli ammalati, ai ciechi ha aperto gli occhi, ha risuscitato i morti, in breve, Gesù ha mediato la forza vitale e la vita in pienezza. Questo impegno per il prossimo egli lo ha vissuto in prima persona (...)”, e questa tutto sommato a me pare la via migliore, almeno nell’Africa subsahariana, per arrivare ad una comprensione più meditata della questione, poiché l’altra posizione, sposata da KOLIÉ 47 sarebbe invece che: “l’opera principale del cristianesimo nell’Africa nera, non è tanto quella di guarire la malattia, quanto quella di esorcizzarla, demistificarla”, strada che a mio avviso, almeno per ora, dato il profondo radicamento in tutto il continente delle credenze appena discusse, risulterebbe impraticabile e rischierebbe di risolversi in un nulla di fatto. Proprio per l’importanza del concetto di malattia e di guarigione all’interno del pensiero religioso tradizionale, in molte culture, come quella Gun del Benin legata al culto dei Vodún 48, che presentano un clero molto ben strutturato, con una trasmissione del sapere che prevede anni di formazione per gli aspiranti all’interno di qualcosa di molto simile ai nostri conventi, la figura del guaritore (o più spesso della guaritrice) combacia e si sovrappone a quella del sacerdote tradizionale. Così come il guaritore, il sacerdote è una di quelle persone dotate di una forza vitale superiore alla norma, che gli permette di avere un contatto più diretto con il mondo del sovrannaturale, di avere più potere di influenzare gli eventi e i flussi delle energie che si muovono nel cosmo e di conseguenza di essere in grado di curare tutte quelle malattie che hanno origine nel mondo dell’aldilà. Nel pensiero africano tradizionale in generale non tutti possono dunque inventarsi sacerdoti, o improvvisarsi tali sulla base di una “vocazione” che sentono solo provenirgli dal di dentro. Essi di fatto sono i prescelti. Le loro storie parlano tutte di chiamate dirette da parte degli spiriti, dei quali custodiscono e portano avanti il culto e che si manifestano con eventi ed accadimenti il più delle volte spettacolari. 47. Kolié in AAVV 1986 cap. 6: 197. 48. Sul vodún si veda Saulnier 2004. 46 La chiamata può infatti avvenire in un periodo di grave malattia, durante il quale la persona può passare attraverso l’esperienza di un coma o di una febbre molto alta con allucinazioni e visioni, può essere anticipata da crisi di tipo epilettico, durante le quali si dice che lo spirito ha scelto la tal persona come sua cavalcatura, o infine può presentarsi di punto in bianco in un momento particolarmente difficile della vita, quando uno, per esempio, rischia la vita in un incidente e miracolosamente ne esce illeso. Così anche SCHIRRIPA a questo proposito scrive (1992: 29): “la vocazione del sacerdote ha origine nella sua possessione da parte di uno spirito, il quale, possedendolo, lo sceglie come suo tramite presso la comunità. L’individuo così scelto segue un tirocinio presso un altro sacerdote (...) una volta che il tirocinio ha termine egli può aprire un proprio santuario-ospedale”. Il sacerdote insomma non può essere una persona come tutte le altre. Nella sua vita ci devono essere segni evidenti della presenza di una forza particolare. Djedwa Yao Kuman, il guaritore del villaggio di Nassian in Costa d’Avorio, con il quale ho lavorato per mesi 49, ad esempio, era certo che il segno evidente del suo destino che gli aveva imposto di diventare uomo delle medicine, fosse il fatto che prima di venire al mondo era stato nel ventre di sua madre per ben 4 anni, durante i quali suo padre le aveva somministrato moltissimi rimedi dell’erboristeria tradizionale contro la sterilità 50. Fu così che appena nato fu chiamato Figlio della Radice, cioè dell’erba grazie alla quale aveva avuto modo di nascere. Chiunque riceva una chiamata da un agente sovrannaturale, rispondendo all’appello, riceve in dono dei poteri speciali, che possono essere legati al mondo della cura oppure a quello della divinazione. Molti sacerdoti tradizionali africani uniscono in sé entrambi i doni 51. 49. Cf Micheli 2011. 50. Senza discutere qui in dettaglio il significato culturale di questa storia, basti al lettore sapere che probabilmente la madre di Kuman era sterile, probabilmente con un ciclo quasi assente o comunque molto irregolare e leggero, e le cure del padre, per fare effetto hanno avuto bisogno di 4 anni. L’effettiva gestazione del bambino, va da sé che non può che essere durata i canonici 9 mesi. 51. A voler ben guardare anche questo è un tratto che può essere considerato praticamente universale nelle religioni tradizionali, poiché lo si ritrova, declinato in maniera diversa, anche in contesti completamente diversi dall’Africa, tra gli shamani siberiani, gli uomini medicina degli indiani d’America o delle popolazioni tradizionali dell’Asia. 47 Questo significa semplicemente che l’uno e l’altro, il dono della cura e quello della divinazione, rappresentano due facce della medesima medaglia, cioè due modi diversi per manipolare nel bene e per il bene le forze moventi dell’universo. Di chiamata divina parlano anche quasi tutti i pastori delle nuove chiese che siamo riuscite a intervistare. Ecco ad esempio che cosa ci hanno detto il pastore Mao della Chiesa di Bethel (Lecco): “sono stato cattolico fino a 14 anni quando ho avuto una chiamata” 52, e il pastore Albert della Chiesa Ministère de la Grace et de la Délivrance (Lecco): “Ho sentito la chiamata quando ero piccolo…già a 7-8 anni. Ma i miei genitori avevano bisogno che io lavorassi e quindi mi hanno fatto studiare per servire Dio. Ho frequentato la scuola Cattolica in Costa d’Avorio e avevo già avuto la chiamata per diventare uomo di Dio. Avevo la possibilità di entrare in seminario e diventare prete cattolico. Ma appunto i miei parenti non volevano perché i genitori sudano per mandare i bambini a scuola e alla fine vogliono i frutti di questa fatica. (...) Dio mi ha chiamato anche dove io lavoravo e mi ha portato dove io lavoravo all’alleanza della Bibbia in Costa d’Avorio per promuovere la Bibbia in francese (...) E dopo quello Dio mi ha scelto comunque durante il lavoro. Mentre cercavo denaro per vivere, Dio mi ha attirato in Svizzera, a Lugano, dove sono andato e ho cominciato un periodo di formazione pastorale. Dio però mi ha guidato per tornare in Italia perché qui c’era bisogno e io sono tornato e ho cominciato poco a poco a guidare le cerimonie e a creare la chiesa. Noi abbiamo cominciato la chiesa nel 2008” 53. Tornando all’Africa tradizionale bisogna fare un passo in più e ammettere che, se è vero che guaritori, sacerdoti o indovini sono considerati di fatto persone speciali e dotate di una particolare forza sovrannaturale, deve anche esser vero che non potranno essere ammessi alla loro presenza uomini o donne impuri, che siano cioè entrati in contatto di recente con una quantità per loro potenzialmente dannosa di forza vitale, tramite l’atto sessuale, per il contatto con sostanze vietate (in alcuni casi si parla di alimenti che possono essere tabù per determinate fami- 52. LiviaInt2 e LiviaInt6. 53. LiviaInt1. 48 glie), o ancora, se donne, per il fatto di essere nel periodo del ciclo mestruale. Il contatto con persone in queste condizioni potrebbe precludere la buona riuscita della cura o del rito, perché potrebbe provocare uno squilibrio dell’energia cosmica coinvolta. È interessante notare che concezioni come questa hanno ombre lunghissime e si possono facilmente trovare come residui sincretici all’interno dei movimenti religiosi che rappresentano l’oggetto del nostro studio. Così infatti scrive ad esempio DE SURGY (2001: 276) relativamente alla Église de la révélation des apôtres in Benin: “Le donne che hanno il ciclo mestruale non sono ammesse all’interno (...) così come non sono ammessi coloro che hanno recentemente avuto un rapporto sessuale”. In questo caso l’idea della possibile contaminazione del sacro da parte di persone impure resta esattamente identica a quella del sostrato culturale originale. Un ulteriore elemento su cui bisogna concentrare l’attenzione quando si parla di religiosità o di processo di cura nell’Africa tradizionale è l’importanza cruciale che viene data da un lato al rito in sé e dall’altro alla partecipazione di tutta la comunità (o di quella parte di comunità direttamente coinvolta nel problema che si vuole risolvere tramite il rito o la pratica terapeutica) all’evento di riconciliazione con le forze del mondo sovrannaturale e al tentativo di ristabilimento dell’ordine naturale delle cose. Il rito diventa un momento di catarsi collettiva, in cui tutti gli attori della comunità possono manifestare apertamente le tensioni accumulate negli anni e cercare una purificazione generale dei rapporti interni al gruppo. Il sacerdote o il guaritore tradizionale sono i direttori dell’evento, i maestri della cerimonia e, cosa fondamentale, sono percepiti come l’anello di congiunzione tra il mondo dell’aldiqua e quello dell’aldilà. Di conseguenza eventuali loro momenti estatici sono non solo attesi, ma anche interpretati come l’effettivo raggiungimento del contatto con le forze sovrannaturali. Ogni gesto, ogni parola, spesso pronunciata in una lingua incomprensibile ai partecipanti al rito, che si ritiene essere la lingua dello Spirito, sono rivestiti di una carica simbolica fortissima e diventano essi stessi strumenti considerati indispensabili per la buona riuscita del rito. In un contesto come questo, come scrive LANTERNARI (1994: 291) riguardo alle pratiche di guarigione da lui analizzate, offrendo un’interpretazione che si addice perfettamente anche al caso nostro, “il clima 49 che si crea nell’incontro con l’operatore (...) produce facilmente nel paziente una condizione di tendenziale abbandono dello stato di coscienza ordinario e di autocontrollo critico: può dunque agevolare una disponibilità a subire l’ipnosi. Sono le condizioni nelle quali il linguaggio simbolico, comportamentale e verbale dell’operatore si caricano di un potenziale di influenzamento rispetto alla persona del paziente. Il volto, le mani, il gestire le formule verbali enunciate dall’operatore, assumono per il paziente che «sente», valori simbolici efficaci e significati possenti”. Per entrare in contatto con le forze sovrannaturali dunque il guaritore o il sacerdote tradizionale deve raggiungere uno stato alterato di coscienza, e lo può fare in diversi modi: attraverso la musica e la danza 54, attraverso la meditazione profonda e la trance, o infine attraverso l’assunzione di sostanze psicotrope 55. In alcune celebrazioni che riguardano non la singola persona, ma l’intera comunità, come ad esempio riti per la liberazione del villaggio da forze negative che impediscono la crescita del raccolto nei campi, o che provocano malattie e morte tra il bestiame, sono previsti momenti di trance collettiva, che il sacerdote, il guaritore, o l’uomo dei feticci, possono ottenere attraverso un uso studiato di un linguaggio particolare, capace di suscitare risposte emotive molto forti nel suo uditorio, oppure ancora attraverso l’uso della musica e di forme coreutiche in cui vengono coinvolti tutti i presenti. Il momento in cui la trance arriva al culmine è anche il momento in cui ciascuno sente di essere giunto alla catarsi e il gruppo, collettivamente, percepisce di aver ottenuto la liberazione dalla negatività che l’aveva soggiogato ed è pronto, ormai libero, a ricominciare la sua vita comunitaria con uno spirito più collaborativo e meno di sospetto. Durante i riti tradizionali compaiono ovviamente diversi segni, oggetti o sostanze che rivestono un ruolo particolare: – la maschera, ad esempio, che rappresenta una sorta di ricetrasmittente tra l’aldilà e l’aldiqua; 54. Si pensi alla danza di guerra dei Maasai, o alle danze delle varie maschere feticcio in tutta l’Africa sub-sahariana, o ancora, in contesto islamico, alle pratiche dei sufi o dei dervisci rotanti, o infine ancora nell’Italia popolare e contadina del Sud, la danza delle tarantate. 55. Si veda ad esempio il caso dei guaritori kulango, in Micheli 2011. 50 – l’olio o il profumo, che possono avere la duplice funzione di allontanare gli spiriti maligni e di costituire uno scudo protettivo per l’unto; – gli strumenti musicali, che di norma sono diversi in base al tipo di celebrazione 56, cioè se, poniamo, la campanella di ferro serve per chiamare gli spiriti dei defunti, essa sarà appropriata nei riti funebri, o in quelli di disinfestazione di un determinato luogo, se invece un determinato tipo di tamburo rappresenta la famiglia regale, esso comparirà solo nei riti di intronizzazione di un nuovo re o in quelli di sepoltura di un re defunto e così via. – oggetti o animali sacrificali. Come si è già detto più volte, il rapporto con le divinità del Pantheon tradizionale è spesso basato sul concetto di scambio e dunque, ogni volta che esse vengono chiamate ad intervenire per dirimere questioni particolari in questo mondo, devono essere in qualche modo ripagate con doni materiali: noci di cola, vino di palma, bestiame minuto. Dopo che la divinità si sarà servita in essenza dell’offerta, il sacerdote potrà o consumare il cibo da solo, oppure chiedere alle donne del villaggio di preparare un banchetto comunitario, se il problema per il quale è stato officiato il rito riguarda tutta la comunità. Anche alcuni di questi aspetti si ritrovano senza fatica nei culti dei movimenti sincretici che stiamo osservando. In quasi tutte le osservazioni sono stati notati, ad esempio: a) il carattere “mediatico” e persuasivo dello stile di comunicazione del pastore durante il suo sermone (che spesso precede il momento della colletta, in modo che i fedeli, caricati emotivamente dalle parole del leader, siano più generosi); b) l’insistenza esagerata sulla necessità di pregare forte (già vista), c) l’irruenza degli strumenti a percussione, dei canti e delle danze, facilitati spesse volte da vere e proprie band organizzate con altoparlanti e ripetitori molto potenti 57 e dalla continua incitazione dei diaconi o delle diaconesse, che costringono l’assemblea a ripetere allo sfinimento i suoi Amen e Alleluia durante l’espressione delle preghiere spontanee e delle testimonianze di guarigione dei partecipanti alla cerimonia. Nella chiesa Bethel di Lecco ad esempio, al momento delle pre- 56. Su questo punto s. v. ad esempio Micheli 2012. 57. Si veda a questo proposito in LiviaOss3 ciò che avviene nella Chiesa Cristiana Evangelica Parola di Fede di Lecco: “verso il fondo della sala dove c’è il palco/altare con una band di 8 elementi e in centro il leggio del pastore. Appena entrati nel salone a destra vi è un enorme mixer e due persone preposte al controllo luci, audio e video: il pastore viene infatti ripreso e la sua predica trasmessa via internet su www. evangelo.org.”. 51 ghiere spontanee: “le persone si alzano in piedi, spesso chiudono gli occhi per concentrarsi, usano un tono della voce molto alto, si agitano, si inginocchiano, allargano le braccia con i palmi delle mani rivolti verso l’alto” 58, o ancora nella Chiesa Pentecostale Ghanese di Rancio di Lecco: “Alcuni fedeli si alzano a turno e pregano ad alta voce per qualcosa che è successo a loro o ad amici, oppure ringraziano Dio. Si chiude la prima parte della predicazione con un canto corale intonato dalla diaconessa che prega ad altissima voce mentre i fedeli cantano in sottofondo. Alla fine del canto pregano tutti insieme ad alta voce camminando per la sala. La diaconessa riprende urlando degli slogan e poi il pastore intona un altro canto corale e poi incita alla preghiera comune e tutti pregano insieme (la voce del pastore sovrasta perché urla nel microfono). La diaconessa si siede e si rialza il pastore che continua la celebrazione con nuovi slogan seguiti da preghiera e canto comune” 59. Solo in un paio di interviste invece abbiamo riscontrato la presenza della glossolalia, ovvero dell’esperienza del parlare la lingua dello Spirito, incomprensibile agli esseri umani. Così dice Tina riguardo alla sua esperienza personale: “Anche a me capita di parlare nella lingua dello Spirito, che non è una lingua degli uomini, è una lingua che capisce solo lo Spirito. Quando sei nell’assemblea e preghi forte, ti capita di sentire il power dello Spirito che entra dentro di te, allora tu puoi parlargli nella sua lingua, gli altri sono lì, ti sentono ma non ti capiscono, tu parli nella sua lingua e lui ti risponde e ti dice che cosa va bene per te... questo è parlare in lingue. Se parli una lingua degli uomini che non conosci, non è lo spirito che è su di te, ma il diavolo... è il diavolo che ti fa fare quelle cose” 60, e così anche B., 20 anni, figlio della diaconessa Stella della Chiesa Pentecostale Ghanese di Rancio di Lecco: “I pentecostali credono molto nello Spirito Santo che aiuta gli uomini che lo devono seguire. Le persone che l’hanno davvero seguito parlano altre lingue grazie allo Spirito stesso perché quando uno adora il Signore gli fa dire parole che non sa e parlare lingue sconosciute” 61. Si diceva che nel modo di pensare del tradizionalista africano la religione non è qualcosa di relegato all’ambito mistico, distante dalla vita di tutti i giorni, bensì è il fondamento stesso di ogni cosa e la vita socia58. 59. 60. 61. LiviaOss1. LiviaOss5. IlaInt1. LiviaInt4. 52 le e i gli atteggiamenti degli uni verso gli altri dovrebbero essere modellati su di essa. I valori tradizionali dunque, i modelli secondo i quali si giudica se una persona è perbene o permale sono ampiamente riconducibili alle idee contenute nei precetti religiosi, o viceversa i precetti religiosi, che di fatto diventano normativi anche per la condotta sociale, non possono non contemplare quelle caratteristiche che la società stessa riconosce come valori fondanti. Nelle società tradizionali africane di sussistenza, ma ovviamente non solo, visto che lo stesso vale ancora per moltissimi contesti contadini dell’Europa o del Nord America, i valori fondamentali da cui non si può prescindere sono: a) la solidarietà di gruppo, b) l’accoglienza, c) la condivisione, d) la distribuzione dei ruoli in base al genere ed e) il matrimonio. Il gruppo deve infatti essere solidale al suo interno, ovvero ciascuno deve sentirsi responsabile del proprio vicino. Nel caso in cui una famiglia o una persona siano in difficoltà per cause di forza maggiore (una malattia, un agente atmosferico che ha distrutto il raccolto o sim.) i vicini dovranno sostenerle e condividere con loro le proprie risorse; viceversa se una persona si trova in difficoltà perché il suo comportamento è antisociale (beve, non lavora, butta il denaro in cose futili ecc.), il compito dei vicini sarà quello di cercare di correggerla e, se del caso, convincerla a rivolgersi al ritualista affinché possa essere liberata dal demone che la possiede e la costringe a comportamenti sconsiderati. In un contesto di questo genere anche l’accoglienza dello straniero è un valore fondamentale. Tutti infatti, prima o poi, possono trovarsi nella condizione di dover chiedere ospitalità, spostandosi da un villaggio all’altro per partecipare ad esempio a un matrimonio o a un funerale ed è bene che ciascuno sia pronto, all’occorrenza, ad offrire la medesima ospitalità che un giorno sicuramente sarà costretto a chiedere per sé. Sempre tenendo conto del contesto, si devono forse fare altre due brevi precisazioni: una riguardo al matrimonio e l’altra riguardo alla questione del genere e dei ruoli. In società di piccole dimensioni e basate su un’economia di sussistenza il matrimonio non rappresenta semplicemente l’unione amorosa e amorevole tra due coniugi che si scelgono, bensì un patto di alleanza, siglato attraverso il congiungimento di due persone, di due famiglie o due lignaggi diversi e impegnati a quel punto a garantirsi mutuo sostegno e collaborazione nei momenti difficili che il tempo e la vita comportano. Sebbene molto spesso il partner venga scel53 to dagli anziani della famiglia allargata, nell’Africa non islamica è difficile che i due sposi non abbiano la possibilità di rifiutare il matrimonio proposto, nel caso in cui sentano di doverlo fare, e questo proprio perché la finalità stessa dell’unione è l’armonia che attraverso i due coniugi diventa comune ai due gruppi. Per garantire l’armonia all’interno della coppia, della famiglia e del gruppo, è poi importante che ciascuno abbia ben chiari i propri compiti e li rispetti. Di conseguenza la distinzione dei ruoli in base al genere è inevitabile. Come è facilmente immaginabile, nella maggioranza dei casi all’uomo spettano i ruoli pubblici (rapporto con il villaggio, cura dei campi) e alla donna i ruoli privati (cura dei figli, gestione della casa, dell’orto e degli animali da cortile), ma ci sono società in cui la sacralità della donna, in quanto generatrice di vita, può innalzarla anche al ruolo di sacerdotessa (è così per il culto di molti vodún ad esempio 62), o di indovina, o ancora, di strega. Va da sé che ogni comportamento che si discosti da quello considerato normale e adeguato alla tradizione genera immediatamente sospetto e viene letto come un indizio di qualcosa che non va, spesso anche di una possessione da parte di spiriti maligni. Questa lettura di fatto consente di trovare una giustificazione e poi, attraverso riti specifici di liberazione, un rimedio, per chiunque per esempio si senta schiacciato dai propri doveri o per chi non resiste sotto la pressione delle aspettative della famiglia e ad un certo punto ha bisogno di una valvola di sfogo. Nelle pratiche delle chiese che abbiamo seguito in questi mesi di ricerca la distinzione dei ruoli non è apparsa con estrema evidenza. In molte delle cerimonie a cui abbiamo avuto modo di partecipare c’era semplicemente una divisione dello spazio dell’assemblea in una zona maschile e in una zona femminile, ma di fatto, per quanto riguarda i ruoli, non è emerso nulla di particolarmente significativo in termini di genere. Solo poche osservazioni possono essere fatte da questo punto di vista. Da un lato va senz’altro notato che la figura del pastore nelle chiese dei latinos è di norma maschile (questo almeno sembra essere il caso nella nostra diocesi), mentre nelle chiese frequentate da africani si sono trovate anche donne che rivestivano quella posizione. A questo proposito, il caso più interessante è quello della chiesa Family Prayer Fellowship di 62. Sul Vodún s.v. Saulnier 2004. 54 Bergamo dove Mrs Margaret Agbonifo, pastora missionaria, definita da un poster collocato all’ingresso della chiesa vision bearer, great woman of God 63, era considerata in pratica una “santona” e aveva richiamato molti fedeli venuti appositamente anche da lontano per ascoltare il suo sermone – e portare offerte – 64, mentre per quanto riguarda i diaconi, o i facilitatori delle preghiere, essi, sia nelle chiese dei latinos, sia in quelle degli africani, potevano essere indistintamente maschi o femmine, così come indistintamente maschi o femmine potevano essere le persone addette all’accoglienza dei fedeli poco prima dell’inizio della celebrazione. Tornando al discorso generale, in Africa, la funzione principale del matrimonio è quella di generare una discendenza e questo è tanto più vero nelle società di sussistenza, visto che una persona in più in famiglia vuol dire automaticamente due braccia e due gambe di più per lavorare, ma è ancora più vero laddove esista la concezione che i defunti sopravvivano nei propri discendenti e siano degni di un culto individuale solo fino al momento in cui esista ancora qualcuno che si ricordi di loro su questa terra, essendo, in caso contrario, destinati a finire nel calderone indistinto degli antenati tout-court, senza identità specifica. Per questo motivo è molto comune che una ragazza africana, anche giovanissima, possa avere più di una gravidanza prima di contrarre matrimonio, perché solo generando una vita avrà dato la prova provata di essere un terreno fertile e dunque un buon acquisto per la famiglia che accoglierà lei e i suoi figli. In molti casi, tanto più una giovane darà prova della sua fertilità, tanto più sarà ricercata e potrà aspirare ad un matrimonio vantaggioso. Per lo stesso motivo moltissime sono le tradizioni africane che ammettono senza alcun problema la poligamia, poiché più donne per un medesimo uomo, significano più figli e più discendenza per lui e per il suo lignaggio e la cosa è talmente radicata nella pratica e nella mentalità tradizionali che molto spesso sono le donne stesse, arrivate ad una certa età, a chiedere al marito di sposare una donna più giovane, che tra l’altro, in casa sarà costretta a portare rispetto e a servire chi l’ha preceduta. Il problema del matrimonio e quello della discendenza non possono mai essere separati da quello degli antenati e di conseguenza essi diventano di fatto problemi religiosi di difficilissima discussione e ancor 63. Visionaria, grande donna di Dio. 64. SilviaOss1. 55 più difficile soluzione soprattutto per la teologia cristiana, cattolica in particolare, che ad oggi non ammette né i rapporti sessuali prematrimoniali, né, ovviamente la poligamia. Su questo tema BUJO già nel 1988 scriveva nella sua Teologia Africana: “(...) una figliolanza numerosa è sempre accolta con gioia, poiché i defunti sopravvivono nei discendenti. Nella visione di molti negro-africani perciò sterilità e celibato sono delitti contro l’umanità. Proprio qui ha sede il problema del matrimonio di prova e quello della poligamia” 65. Non è il caso di dilungarsi qui su questo problema, che non riguarda di fatto la tradizione, quanto piuttosto le implicazioni e le ricadute che essa ha in un contesto che cambia nella conversione a religioni come il cristianesimo e che un giorno, probabilmente non lontano, dovranno essere affrontate dalla Chiesa cattolica, attenta ai migranti. Va detto ad ogni buon conto che nelle nostre osservazioni alle cerimonie e nelle nostre interviste ai fedeli, i temi della poligamia e del rapporto con i defunti non sono mai affiorati. 65. 1988: 54. 56 PARTE II - L’AMERICA LATINA. Gli immigrati latinos che vivono oggi sul territorio di Bergamo provengono principalmente da aree andine, in primo luogo dalla Bolivia, dall’Ecuador o dal Perù, in linea di massima da regioni di cultura tradizionale Quechua o Aymara, già influenzate prima della conquista spagnola dall’imponente civiltà incaica, costituitasi in una società decisamente più strutturata e complessa rispetto alla maggioranza di quelle africane che abbiamo tentato di presentare brevemente nel capitoletto precedente. Ciononostante tutto ciò che su quelle avevamo detto riguardo ai meccanismi e alle risorse della razionalità tradizionale vale anche in questo caso. Il punto infatti, come avevamo già sottolineato, non è tanto la complessità della struttura sociale, quanto le dinamiche che governano la trasmissione e la delega del sapere. Fino all’avvento degli spagnoli, la scrittura di fatto non esisteva, anche se ancora oggi è ancora molto dibattuto il reale ruolo dei quipu 66 (un sistema di cordicelle con una serie di nodini che probabilmente servivano ai funzionari dell’impero inca per “contare” persone o beni che si spostavano sul territorio) e dei segni geroglifici trovati su alcuni oggetti intorno al lago Titicaca, indizio forse di un sistema grafico nato in contesto religioso con finalità magico-protettive e appannaggio di pochi sacerdoti eruditi, così come era il caso dell’Antico Egitto nel mondo africano. 66. Letteralmente nodi. 57 Sta di fatto che, così come quella africana, anche la cultura andina tradizionale, con i suoi retaggi mistico-religiosi, è sopravvissuta al tempo e alle conquiste degli europei (e soprattutto ai loro tentativi – spesso sanguinosi – di estirpare le credenze indigene, considerate di natura diabolica) e ancora oggi tracce significative di essa si possono trovare non solo nelle zone rurali più lontane dalle città, ma anche nei grandi insediamenti come Cochabamba. C’è però un fatto di natura storica che va sottolineato e che determina una divergenza importante tra l’evoluzione della religiosità popolare andina e quella africana, la quale costituisce la principale ragione per cui anche i movimenti sincretici di cui ci stiamo occupando, presentano aspetti molto diversi se considerati rispettivamente nelle loro manifestazioni latinoamericane piuttosto che africane. Questo fatto, detto in tre parole, è l’abitudine alla convivenza sul territorio indigeno con il cattolicesimo, che nel caso delle culture andine risale addirittura ai primi periodi della conquista spagnola, e cioè agli inizi del XVI secolo, mentre nel caso dell’Africa è molto più recente e databile nella maggioranza dei casi addirittura alla seconda metà del 1900. Per questo motivo, in America Latina, dopo secoli di contatto, ormai si può dire che non esistano più realtà tanto remote da non aver mai sentito parlare di Gesù Cristo, della Madonna o dei Santi cattolici. Tra gli antropologi la questione della sopravvivenza dei culti andini sotto pratiche derivate chiaramente dal cattolicesimo è ampiamente dibattuta. Molti parlano di sincretismi, altri parlano di giustapposizione, ma tutti fanno risalire questa specie di miscuglio di credenze e di valori proprio alla convivenza delle due tradizioni. Riassumendo al massimo, la situazione di fatto è quella presentata da Xabier PALACIOS nella sua sintesi sulla cosmovisione andina del 2004. Egli infatti scrive: “Oggi gli antropologi discutono se nelle Ande si sia preservata una cultura propria, o se al contrario vi sia un sincretismo culturale prodotto dall’influenza di altre culture. Il cristianesimo è la cultura dei vincitori che hanno dominato per secoli il continente americano. È evidente che questa cultura ha lasciato tracce indelebili, ma non si può ignorare fino a che punto la cultura aymara e quella quechua abbiano resistito all’annullamento a causa delle idee cristiane. Ci sono indizi che permettono di affermare che queste culture precolombiane, pur mantenendo determinate formalità apertamente recepite dal domi58 nio politico dei conquistadores, conservano senza dubbio tutta la ricchezza della propria cosmovisione originale” 67. Ma quali erano, o meglio, quali sono le caratteristiche della cosmovisione andina che hanno consentito ai conquistatori spagnoli e al cristianesimo cattolico che essi professavano di innestarsi in maniera così radicale sulle credenze tradizionali degli indigeni? Quali erano i valori fondanti di quelle credenze e di quei culti, che potevano non solo essere accettabili, ma anche condivisibili in una visione cattolica del mondo e degli uomini? Lo vedremo tra poco facendo qualche passo indietro nel tempo e cercando di mettere in fila i diversi elementi che oggi si fondono in un unico calderone. Tanto per cominciare bisogna tener presente che una cosmovisione andina monolitica e sempre uguale a se stessa non esiste, come non esiste un’unica civiltà andina precedente l’arrivo in America Latina degli spagnoli. Il panorama etnico e culturale alla fine del 1400 era costituito nelle regioni di nostro interesse principalmente da sostrati Aymara e Quechua, che erano già stati incorporati nella grande civiltà incaica fin dai tempi del primo re-sole Pachacutec 68, fondatore dell’impero Inca del Cuzco, che con lui arrivò ad estendersi lungo la dorsale andina dall’estremo sud dell’odierno Ecuador, attraversando il Perù, fino ad arrivare alla Bolivia, al Cile e al nord dell’attuale Argentina. Le differenze che si potevano riscontrare nelle diverse tradizioni riguardavano però più il rivestimento esterno che non il nocciolo della questione. Potevano variare il numero e i nomi delle divinità, anche ovviamente a seconda della lingua locale, ma le figure centrali rivestivano ovunque i medesimi ruoli e si ritenevano portatrici dei medesimi valori, e per questo possiamo qui permetterci di parlare di cultura andina come se si trattasse di qualcosa di unitario, almeno fino alla virata incaica che portò ad un culto con le caratteristiche di una fede più strutturata nel disco solare, che potremmo definire in effetti monoteistica. Come scrive PALACIOS (2004: 61): “Nella cosmovisione andina – si legga qui Aymara e Quechua ndr – l’uomo deve sempre essere in armonia con la natura che è regolata dall’azione delle divinità. La natura è vista come elemento sacro. Gli Achachilas sono i nonni, spiriti degli antenati che si trovano sulle montagne innevate che circondano l’habitat 67. In Krei, vol. 8, p. 57. 68. Cuzco circa 1380 - Cuzco circa 1460. 59 umano. Sono gli spiriti protettori del popolo aymara e di ogni comunità locale”. Poco oltre, lo stesso studioso aggiunge (2004:62): “Tutto ha origine nel Pachakamaq, principio creatore e origine del cosmo, della natura e del tempo, qualcosa come l’energia cosmica che si sente nella coscienza. Il Pachakamaq si manifesta tramite vibrazioni e raggi di luce. Il sole è una di queste manifestazioni (...) Nella natura è rappresentato dall’Apu (il picco), nella famiglia dal padre e nell’uomo dalla testa (...)”. In queste poche righe è racchiuso tutto il pensiero religioso (ma anche sociale) dei popoli andini. L’universo è retto da un principio creatore, il Pachakamaq, che è allo stesso tempo l’energia cosmica che si ritrova anche nella coscienza dell’essere umano 69, origine del cosmo e del tempo. Questo principio creatore si vede nelle vibrazioni e nella luce, e di conseguenza il sole non può che esserne la manifestazione per eccellenza, e come si vedrà questo farà gioco non solo al culto Inca del disco solare, ma anche a quello medievale cristiano del Dio che porta la luce. La cosmovisione andina però non si ferma qui. Essa infatti si struttura in un rincorrersi di corrispondenze metaforiche e allegoriche sui diversi piani del reale, che non fanno che confermare l’assoluta naturalità del principio fondante. Così, in un immenso gioco di rimandi più o meno espliciti il Pachakamaq è rappresentato nel mondo naturale da un picco elevato, Apu, che sovrasta il resto della regione; è presente nella famiglia nella figura del padre, che riveste il ruolo di tutore e allo stesso tempo di guida; infine, nell’essere umano, esso è rappresentato dalla testa, dalla mente, ovvero dal punto nevralgico della persona, quello che guida tutto il corpo e le sue azioni. La storia, quella dell’universo, quella del mondo (che si ritiene avere cicli di circa 1000 anni ciascuno), quella della natura (che si vede nell’anno agricolo, scandito dai suoi ritmi di secco – umido, caldo – freddo, semina - raccolto e dalle festività legate alla fertilità della terra), così come quella della società, della famiglia e dell’uomo è un continuo ripetersi di cicli nei quali tutti gli elementi devono tenersi in costante equilibrio. 69. L’essere umano non cambia molto, nemmeno cambiando latitudine; si ricordi a questo proposito l’esempio fatto per l’Africa della kpayò dei Kulango della Costa d’Avorio. 60 Di conseguenza i valori fondamentali delle culture andine sono l’armonia, la collaborazione e la reciprocità, che devono costituire la base di ogni società. Sempre PALACIOS (2004:62) riassume il concetto con queste parole: “Questa concezione fisica del cosmo ha un suo corrispettivo nell’ordine sociale e morale. La solidarietà e la cooperazione, così come la reciprocità e la collaborazione definiscono l’idiosincrasia della comunità”. Detto questo manca di definire il ruolo di un elemento cardine del rapporto uomo-natura, ovvero quello della Pachamama, o Madre Terra. Molti dei riti agricoli che scandiscono il calendario liturgico andino, sono infatti dedicati alla Pachamama e servono per mantenere inalterata l’armonia tra la natura, provvida di doni, e gli esseri umani, i quali, grazie a quei doni, possono sopravvivere in un clima e in un ambiente difficili. Ogni famiglia andina, anche se si professa cristiana, ha in casa propria un piccolo altare per la Pachamama sul quale periodicamente (almeno tre volte all’anno) eleva offerte in generi alimentari (tabacco, mais e sim.) proprio alla Madre Terra. A questo proposito PALACIOS (2004:59) scrive: “Le offerte alla Pachamama (Terra Madre) non sono scomparse con la liturgia cristiana, piuttosto esse hanno ricevuto un senso nuovo rispetto alla liturgia della messa” e ancora poco oltre (p. 60): “Gli aymara, senza dubbio, sebbene frequentino la chiesa cristiana, continuano a fare offerte sull’altare domestico”. La Pachamama non viene adorata soltanto in una dimensione privata, interna all’abitazione domestica, bensì costituisce una delle divinità collettive centrali dei culti maggiori, che oggi sono spesso assimilati a festività cristiane e, laddove non lo sono, hanno incorporato nel rito tradizionale pratiche cristiane mirate a rafforzarne la potenza. Così ad esempio, scrive la ETCHELECU (2007:300): “Per esempio nel rito della Pachamama, quando rivoltano la terra e versano il sangue di un lama sacrificato, talvolta pregano l’avemaria, “cristianizzando” i loro riti”. Sempre relativamente alla sovrapposizione del calendario liturgico cattolico su quello dei culti tradizionali legati alla vita agricola e alla fertilità, è interessante considerare anche quanto era riportato nel rapporto del CENTRO ECLESIAL DE DOCUMETACIÓN di Cochabamba relativamente al carnevale di Oruro del 1986 (p. 16): “Il Carnevale è innanzitutto venerazione alla terra ed ai suoi cicli di fertilità (...) I cicli della vita nel lo61 ro rapporto di uomo/donna si articolano attraverso l’allegoria. Così le opposizioni: terra/acqua, monti/pianura, superficie/sottosuolo acquisiscono la stessa valenza di fertilità dell’opposizione uomo/donna. Il Socavón assume queste relazioni (...) Dio è fecondatore della Vergine come il sole è fecondatore della terra”. Anche nelle testimonianze delle persone che abbiamo incontrato per la nostra ricerca ci sono tracce di questo rapporto, ancora molto forte, con la Terra Madre. Questo, ad esempio, è quanto dice B.B., boliviana di 50 anni: “In Bolivia frequentavo la chiesa cattolica (...). Quando c’erano dei problemi pregavo, e mi promettevo di andare più spesso in chiesa. E tutto finiva lì. Ho visto, in quelle montagne, i rituali alla “Pachamama”, ed altre cose, ma non ero molto attratta, magari non ci credevo in quelle cose… Qualche volta ho partecipato a feste folcloristiche e danzato con molti gruppi. A scuola poi era obbligatorio far parte di un gruppo, o che sia di teatro, o che sia di ballo, io preferivo la danza ed il canto… pensavo che era anche una forma di religione verso la nostra Terra, verso la Bolivia” 70. La cosa interessante di questo brano è il fatto che allo stesso tempo B.B. dichiara tre cose diverse: 1) che in Bolivia frequentava la Chiesa cattolica (ora si dichiara cristiana evangelica), 2) di aver visto in Bolivia rituali per la Pachamama, che definisce tuttavia feste folcloristiche, 3) che le piacevano la danza e il canto che considerava una forma di religione verso la sua Terra. Per B.B. le tre affermazioni sono tutte contemporaneamente vere e per niente contraddittorie, poiché l’atteggiamento religioso popolare, l’abbiamo visto più volte anche per l’Africa, non percepisce la contraddizione di rivolgersi ora ad un culto, ora ad un altro, in base al luogo e alla convenienza, poiché tutto è religione e in ogni contesto vi sono forme più o meno adeguate al momento e al fine che si vuole ottenere. Ma torniamo per un attimo al culto del disco solare di Cuzco. Si è già visto come l’assimilazione della figura divina con la luce e con il sole non fosse aliena alle tradizioni andine in generale. A fronte di ciò, non si può fare a meno di ammettere che, in quel contesto storicoculturale, l’idea dell’Inca Pachacutec di assimilare la sua persona al disco solare, trasformando la genealogia dei sovrani Inca da umana a sovrannaturale, non poteva che ottenergli il merito di farsi accettare dai popoli via via conquistati come un protettore divino, un garante dell’equi- 70. EstrellaInt6. 62 librio cosmico sulla terra, evitando di essere visto semplicemente come uno sgradito conquistatore straniero. Su questo tema Leontina ETCHELECU (2007:294), scrive: “Pachacutec approfittò dei benefici della divinità solare, che fin a quel momento era solo un elemento del pantheon inca tra tanti altri - e per quel che interessa a noi, anche nel Pantheon Aymara e Quechua ovviamente ndr -, per erigersi a «figlio» del sole e costruire la propria ortodossia, che lo elevava rendendolo ricettacolo delle forze divine”. Grazie a questa operazione, dunque, la cultura Inca venne accettata e si innestò senza colpo ferire sui sostrati delle popolazioni andine assoggettate all’impero del Cuzco, ma a partire da qualche decennio più tardi, proprio sulla base di questa prima operazione sincretica, ebbero modo di installarsi i nuovi sincretismi cristiani, attraverso i quali i conquistadores della cattolicissima Spagna poterono, in modo molto accorto, fondare il loro potere. Sempre ETCHELECU scrive infatti: “L’identificazione tra Dio e la luce non era aliena all’uomo spagnolo, il quale, per tradizione medievale, era abituato a immaginare la divinità proprio in termini di luce (2007:296)”. Di conseguenza non ci volle molto perché i conquistatori riuscissero a convertire le pratiche monoteistiche rivolte al culto del disco solare in pratiche equivalenti rivolte al Dio cristiano portatore di luce. Infatti questa provvidenziale sovrapposizione di immagini e attributi della divinità faceva gioco ai nuovi padroni, la cui “necessità di trovare un modo rapido per evangelizzare gli indigeni, permise che la divinità solare fosse “convertita” al monoteismo, una variante che conveniva agli interessi del cristianesimo nel suo bisogno di trovare nel Dio andino creatore un parallelo al Dio cristiano” 71. Anche nelle chiese evangeliche sincretiche dei nostri immigrati resta viva la stessa simbologia, tant’è vero che in uno dei luoghi di culto osservati, proprio in una comunità di latinos: “Contro il muro c’è un altare, dentro l’altare una Bibbia con una luce che illumina continuamente” 72. Considerando ciò che avvenne fin da subito, e alla luce del fatto che ancora oggi le pratiche tradizionali si mescolano con una naturalezza sconvolgente alle pratiche e ai riti cattolici, non stupiscono sovrapposi- 71. Etchelecu 2007:295. 72. EstrellaOss2. 63 zioni all’apparenza ardite tra figure sacre al cattolicesimo, come la Vergine Maria e il Corpus Christi, e le corrispondenti figure andine portatrici dei medesimi valori. Così ad esempio nel rapporto del CENTRO ECLESIAL DE DOCUMETACIÓN di Cochabamba del 1986 sopra citato, a p. 15, si dice che: “La Vergine Maria, come figura femminile, incontrò nell’Altopiano una tradizione molto favorevole alla sua identità con la Pachamama. La cultura religiosa pre-incaica, infatti, aveva costruito nel lago Titicaca un microcosmo simbolico intorno a deità femminili. Le stesse caratteristiche di religiosità furono attribuite alla Vergine”. In effetti, così come nel cattolicesimo la Vergine Maria viene considerata la mediatrice privilegiata tra Gesù, suo figlio, e gli uomini, così nelle Ande si è soliti pregare Dio per intercessione della Pachamama o degli antenati, che vivono nel mondo dell’aldilà, nell’armonia cosmica e partecipano dell’energia cosmica. Così a questo proposito scrive PALACIOS (2004:60): “Si prega Dio attraverso la Pachamama e gli Apu (i signori delle cime). Per chiamare Dio usano la parola Taititu, che definisce il padre maggiore, (Acha tata), il nonno della famiglia”. Forse proprio per questa evidente corrispondenza tra l’idea andina di Dio come Padre (Taititu) e quella cristiana di Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, e l’essere umano come fratello, è stato facile per le popolazioni andine accogliere senza problemi anche questa dimensione genealogica del credo cattolico, così come sostiene sempre PALACIOS (2004:61), quando afferma che: “Sembra che Taititu (padre) sia il termine più antico per riferirsi a Dio. Gesù viene inteso come Figlio del Padre in senso genealogico”. Resta infine la questione della festa del Sole, incorporata senza problemi in quella cattolica del Corpus Christi, riguardo alla quale la ETCHELECU (2007:298) scrive: “Nonostante la sua proibizione e già nel periodo coloniale medio, la festa del sole fu vista all’interno del Corpus Christi come evidenza del trionfo della religione cattolica sull’idolatria” 73. Moltissimi sono infine i casi di riti cristiani accettati ed eseguiti dalla popolazione andina non tanto per rinnegare e sostituire quelli tradi73. “Invece di divenire un elemento sincretico, essa si giustappone, corre parallela al rito cristiano e non interferisce con il dogma, al contrario, a giudizio dei protagonisti, lo arricchisce” Etchelecu 2007:299. 64 zionali, bensì per aumentarne il valore mistico e di protezione. Lo stesso accade, tra l’altro anche con i sacramenti, che, lungi dall’essere intesi come passaggio da una religiosità precedente (quella andina) ad una nuova e integra in sé (quella cristiana), vengono invece visti come strumenti per ribadire i valori tradizionali e, se del caso, rafforzarli con pratiche, per così dire, più moderne ed efficaci. Xabier PALACIOS (2004:59), scrive ad esempio, a proposito del battesimo, praticato ormai da tutti sulle Ande: “Il battesimo, ad esempio, è visto come un rito attraverso il quale l’uomo e la società si riconciliano con la Pachamama al fine di evitare catastrofi naturali”. Seguendo la stessa logica, la stessa sorte tocca ai simboli del sacro tipici della cristianità o, nello specifico, del cattolicesimo, che vengono impiegati senza percepire alcuna frizione nelle pratiche tradizionali andine con finalità che sarebbero contrarie all’uso cattolico. Ecco ad esempio ciò che scrive PALACIOS (2004:60) riguardo all’acqua santa: “L’acqua benedetta, elemento sacro nel cristianesimo, è sacra anche per gli aymara e segno di protezione contro gli spiriti maligni”. Importante è a questo punto rilevare come l’acqua santa sia stata usata con gli stessi scopi anche nelle pratiche dell’Italia contadina fino ai giorni nostri. Le stesse pratiche si ritrovano quasi intatte anche nelle chiese evangeliche sincretiche che abbiamo avuto modo di incontrare nella nostra Diocesi. Uno degli strumenti maggiori usati dagli immigrati andini come protezione contro le forze del male è ciò che essi chiamano l’olio santo, ma che è semplicemente benedetto dal loro pastore, e a proposito del quale ad esempio ci dice Alma A., argentina: “Noi usiamo anche l’olio santo e cospargiamo a volte in tutta la casa ed i luoghi dove lavoriamo. Facciamo digiuni e preghiere quando sentiamo che siamo turbati” 74, e XXX, ecuadoriana: “Anche i fratelli o le sorelle (battezzate o diaconi) possono “disciplinarti” (aiutarti a capire in quale momento ti sei allontanata della fede, una specie di confessione) ed aiutarti, ungendoti con olio, preghiere” 75. Un ultimo elemento da considerare è la figura del sacerdote, il quale, nella sua veste di mediatore tra gli uomini e Dio, non è riuscito a soppiantare o a sostituire la figura tradizionale andina dello Yatiri aymara, il 74. EstrellaInt10. 75. EstrellaInt9. 65 saggio, ma allo stesso tempo colui che è capace di dialogare con il mondo ultraterreno, dotato di poteri sovrannaturali e in grado di vedere nel futuro, scacciare le forze maligne e curare i malati. In poche parole, il garante dell’equilibrio uomo-natura, e in alcuni casi l’unico in grado di ristabilire l’ordine cosmico. In effetti, in mancanza di un’alternativa valida, questa volta è stato l’elemento andino a prevaricare su quello importato e, come scrive PALACIOS (2004:59): “La figura dello yatiri come sacerdote presso la cultura aymara si è rafforzata a spese del sacerdote cristiano, grazie ai suoi attributi sovrannaturali e alla sua missione di mediatore con le divinità che garantiscono all’uomo un equilibrio costante con la natura. Lo Yatiri è colui che “sa”, il maestro, il sacerdote”. Proprio per la sua presunta saggezza, lo Yatiri, ancora oggi nelle comunità andine, è la figura principale di riferimento per la gente in difficoltà. Così non devono stupire testimonianze come quella di B.B., boliviana, che ci racconta: “Sono cresciuta in un centro miniero, la vita era molto difficile, la gente superstiziosa e molti cercano di farsi aiutare dagli “yatiri” 76. Mi pare a questo punto superfluo sottolineare che le stesse caratteristiche le avevamo viste attribuite in Africa al guaritore tradizionale. Cerchiamo ora di tirare le fila del discorso e di sottolineare quegli elementi che inseriscono anche l’esperienza della religiosità andina nel mare più grande della religiosità tradizionale comune all’essere umano in generale. Tali elementi ci serviranno poi come base per il discorso che approfondiremo sulla fortuna dei movimenti sincretici tra gli immigrati in casa nostra. Anche nel caso andino abbiamo avuto modo di constatare che la religione non è mai intesa come qualcosa di distinto dalla vita quotidiana della persona. Essa anzi costituisce il cardine attorno al quale tutto ruota e non vi è soluzione di continuità tra il mondo naturale e quello sovrannaturale, di cui il primo è semplicemente la parte che ci è dato di vedere con i nostri poveri occhi di esseri umani. Esattamente come avviene in Africa, si ritiene che tutto sia regolato da una forza immanente che garantisce armonia nella vita del cosmo e delle persone e ogni comportamento scorretto, ogni stortura nei rap- 76. EstrellaInt6. 66 porti tra gli abitanti del mondo naturale o tra essi e il mondo sovrannaturale, si risolva nella perdita di quell’armonia e dell’equilibrio stesso dell’universo, che va ristabilito attraverso riti specifici (al Sole, alla Pachamama) o chiedendo aiuto e mediazione a figure potenti (gli Yatiri) e capaci di ricostituire il flusso regolare della forza del cosmo anche in quelle persone che, a causa di un loro errore o di un comportamento scorretto, si sono ammalate (nell’anima o nel corpo) per averlo smarrito. Poiché anche sulle Ande vi è l’idea che, così come esistono persone capaci di manipolare la forza vitale per il bene della natura, della società o delle persone, allo stesso modo esistono anche persone capaci di manipolare la stessa potenza per scopi molto meno nobili e dunque danneggiare gli altri o la società in generale, è ovvio che anche in questo caso larga parte delle preoccupazioni della gente perbene sia legata al problema della brujeria, o di quello che in italiano definiremmo semplicemente stregoneria o malocchio. Di conseguenza, così come in Africa il guaritore tradizionale assume il ruolo di controstregone e combatte magicamente con le forze del male, allo stesso modo anche allo Yatiri andino si riconoscono le stesse capacità e anche in questo caso, lo Yatiri, agendo per il bene, ed essendo cosciente di rappresentare semplicemente uno strumento nelle mani del Dio Supremo, deve mettere i suoi poteri al servizio della gente senza chiedere alcun risarcimento in cambio, anche se, com’è ovvio che sia, può accettare eventualmente i doni che spontaneamente la persona guarita per suo tramite vuole fargli avere. Dato l’assillo costante del doversi guardare le spalle dagli stregoni o dall’invidia della gente, è naturale che anche il mondo andino sia invaso da amuleti e talismani protettivi e, vista la familiarità che esso ha con il cattolicesimo da più di cinque secoli, è chiaro che molti di tali talismani hanno spesso la loro origine negli oggetti sacri della Chiesa. Si è visto poco sopra il ruolo protettivo attribuito ad esempio all’acqua santa, ma lo stesso vale, ça va sans dir per il simbolo cattolico per eccellenza, ovvero la croce di Cristo, o ancora per la semplice corona del rosario mariano. Un altro elemento che fino ad ora non abbiamo forse considerato con la dovuta attenzione è quello degli antenati. Si è detto che secondo la concezione andina il mondo terreno e quello ultraterreno convivono e rappresentano due elementi distinti del cosmo. Nulla esce dalla creazione, ma passa da uno stato o da una dimensione all’altra, e la stessa cosa vale per gli esseri umani, la cui vita non finisce con la morte, bensì nella morte trova un nuovo inizio ed una nuova forma. 67 Non per niente una delle feste cristiane sincreticamente rivissute dalle popolazioni andine con maggiore enfasi è la festa di Ognissanti, durante la quale gli abitanti del mondo terreno pensano di poter rientrare in contatto con chi li ha preceduti (gli antenati di africana memoria). Nel giorno di Ognissanti la famiglia unita, esattamente come accade ancora oggi tra i popoli del nord Europa e della Russia, si reca al cimitero, sulla tomba dei propri defunti, e lì celebra una vera e propria festa di riconciliazione, scandita da passaggi ben precisi, soprattutto nella ricorrenza dei primi tre anni dalla morte di un congiunto. Il primo anno la festa è silenziosa e le persone portano ancora le tracce della malinconia per la perdita del familiare defunto, il secondo anno si arricchisce di un sontuoso banchetto, costituito da tutti i cibi che il defunto prediligeva e il terzo anno al banchetto si aggiunge anche un’orchestrina che suona la musica che al defunto piaceva di più. Tutto questo sta a significare senza ombra di dubbio che la credenza nella sopravvivenza dell’anima al momento del trapasso è viva e fondante e soprattutto che i rapporti tra l’aldiqua e l’aldilà sono regolari e continui. Di conseguenza anche gli antenati vanno rispettati, altrimenti si rischia nuovamente di rompere l’equilibrio cosmico che garantisce il naturale svolgersi della vita del cosmo. Da tutto questo scaturiscono i valori che regolano la vita sociale della persona perbene, inserita in una società perbene, anch’essa specchio e pedina dell’equilibrio cosmico che va tutelato e garantito sopra ogni cosa e con ogni mezzo a disposizione. Da qui deriva il bisogno di reciprocità e solidarietà dell’andino medio, il suo bisogno di sperimentare l’accoglienza, offrendola e aspettandosi di riceverla dagli altri, la sua necessità di fondare ogni scelta della sua vita privata e professionale sulla condivisione e sulla collaborazione tra pari. Prima di procedere nel nostro studio forse è bene a questo punto che ci chiediamo se la nostra società occidentale, l’Europa, l’Italia, Bergamo in particolare, risponda o meno alla descrizione della società ideale che molti dei migranti che bussano alle nostre porte immaginano di trovare quando lasciano i propri paesi d’origine per venire da noi, e in che modo potremmo modificarla per renderla migliore, tanto più che un comportamento poco accogliente da parte nostra, soprattutto nelle nostre chiese è spesso l’elemento che spinge i migranti a scegliere altri luoghi di ritrovo e altre persone in cui riporre la propria fiducia, come testimoniano molte delle persone che abbiamo intervistato. Così ad esempio dice B. B., boliviana, riguardo alle sua parrocchia: 68 “Non so cosa manchi, magari quel calore umano che gli evangelici ti danno, ti fanno sentire parte di una comunità, che puoi contare su di loro e che tu puoi dare il tuo aiuto o contributo” 77 e lo stesso afferma fortemente XXX, ecuadoriana: “Per noi stranieri è necessario trovare dei posti dove l’accoglienza è reale, è concreta e la esperimenti con i fatti della vita di tutti i giorni. Forse questo è quello che manca alla mia antica chiesa: l’accoglienza “verdadera”, “no solo de boca para afuera 78” 79. Il problema dell’accoglienza è profondo e reale e riguarda anche i rapporti interni alle comunità stesse degli immigrati. Alma A., argentina, infatti, riferendosi ad alcuni gruppi evangelici incontrati sul nostro territorio, dei quali non è stata per nulla soddisfatta, ci dice: “i fedeli se ne vanno perché non c’è molta accoglienza, la porta deve essere aperta, come anche il cuore” 80. Da questo punto di vista è interessante ripercorrere l’itinerario religioso di Amilkar, boliviano, che, essendo nato in ambiente cattolico, dice di essersi poi convertito, a Cochabamba, alla Chiesa Evangelica di Cristo Vivo, perché lì “di positivo c’è un profondo senso di fraternità, rispetto e uguaglianza tra tutti, anche con il pastore. Una bella accoglienza, decoro nel vestire”, però una volta arrivato a Bergamo, circa 7 anni fa, ed essendosi inserito in un altro movimento evangelico, il Movimiento Misionero Mundial, l’ha abbandonato dopo poco tempo, perché: “il pastore era troppo critico, ambizioso e parlava troppo di denaro. Il suo comportamento era contrario alla sua predicazione (macchine lussuose con autista, vestiti di lusso…) certo i soldi che raccoglieva non andavano ai poveri”, e alla fine è ritornato alla Chiesa cattolica perché, come scrive don Mario nel resoconto della sua chiacchierata con lui: “Questi eccessi e la constatazione di come la Chiesa cattolica aiutava tramite la Caritas lo porta a riflettere e ad abbandonare tale chiesa ritornando a frequentare la messa dove incontra due sacerdoti che gli piacciono nel loro modo di predicare e di proporsi. Per cui pensa di aver concluso il proprio cammino di ricerca, praticamente ritornando alle origini di quando andava a scuola” 81. 77. 78. 79. 80. 81. EstrellaInt6. Non solo con la bocca, superficialmente. EstrellaInt9. EstrellaInt10. DonMarioInt1. 69 III. ELEMENTI DI CONTINUITÀ, OVVERO PERCHÉ I MOVIMENTI CARISMATICI, PENTECOSTALI, EVANGELICI E LE NUOVE FORME DI ASSOCIAZIONISMO RELIGIOSO RISULTANO ATTRAENTI (AI MIGRANTI MA NON SOLO). All’inizio di questa nostra riflessione sui movimenti sincretici evangelici e neopentecostali, ci siamo concentrati sui numeri (sconcertanti) che li caratterizzano oggi in Europa in generale e più precisamente in Italia e a Bergamo, ma ci siamo soffermati poco a riflettere sul fatto che lo stesso senso di invasione devono averlo provato i cristiani cattolici o protestanti, o i tradizionalisti, delle grandi città dell’Africa e dell’America latina negli anni ’80, quando, di fatto, si sono visti portar via sempre più fedeli e sempre più velocemente da un fenomeno che, da circoscritto e settario che era, diventava via via più importante e invasivo. Così ad esempio scriveva CANOVA nel 1987 82 riguardo all’America Latina: “Analizzare il fenomeno delle sette in America Latina non è impresa facile; esse infatti si presentano a noi con una varietà di nomi e di orientamenti che costituiscono un vero rompicapo anche per gli addetti ai lavori (...) In Argentina nel registro dei culti non cattolici all’inizio del 1986 risultavano iscritte oltre 1920 sette, di cui oltre la metà appartengono al cosiddetto credo fondamentalista o evangelico. (...) In Bolivia (...) il governo ha già conferito la personalità giuridica a 344 gruppi religiosi, 81 altri stanno completando la documentazione (...). In Cile, se limitiamo la nostra indagine ai pentecostali, potremmo costatare che essi sono suddivisi in 350 chiese (...). In Brasile (...) B. Kloppenburg in una relazione tenuta nel 1975 affermava che nella sola Rio de Janeiro vi erano a quel tempo 30.000 centri di culti afro-brasiliani”. 82. Canova 1987: 1-3. 70 Rileggere oggi quei dati dà in effetti lo stesso senso di vertigine che danno i rapporti dei nostri osservatori sull’immigrazione o anche solo quelli delle ACLI sul comportamento religioso degli africani e dei latinos che vivono nella diocesi di Bergamo. Esattamente come sta avvenendo oggi in Europa, la Chiesa dell’America Latina della fine degli anni ’70 si interrogava sul perché di un successo così improvviso, imprevedibile (?) e strepitoso e, spaventata dalla dimensione che la questione andava velocemente assumendo, cercava strumenti per correre ai ripari ed arginare quanto più possibile il fenomeno. Per far questo, scrive CANOVA (1987: 18), le CEP (Conferenze Episcopali Latino Americane) pubblicarono nel 1984 una lettera pastorale dal titolo Ecumenismo: obiettivi, risultati raggiunti, deficienze nella quale “si sottolinea la necessità di dare ai fedeli una formazione biblica e di rendere le liturgie più vive e più partecipate. Si insiste inoltre sull’opzione preferenziale per i poveri. Per ultimo si danno dei suggerimenti allo scopo di orientare e guidare saggiamente i cosiddetti movimenti di «rinnovamento nello Spirito»”. In quegli anni e in quelle regioni del mondo, il fenomeno aveva anche una lettura tutt’altro che religiosa. Dato che la maggioranza degli ideatori e dei fondatori di quei movimenti evangelici e pentecostali provenivano dall’America del Nord e che molti di essi entravano nei nuovi territori con moltissimo denaro da destinare alla “causa”, in particolare dagli Stati Uniti, molti teologi e sociologi erano disposti a vedervi nascoste oscure trame politiche che, secondo loro, avrebbero dovuto avere come obiettivo principale quello di impedire, o meglio, di arginare, l’avanzata del comunismo in America latina. In realtà non si trattava solo di un sentimento popolare, tant’è vero che nel novembre del 1984 proprio i 42 vescovi del SEDAC (Segretariato dei Vescovi dell’America Centrale) stilarono un documento in cui dichiaravano che: “è innegabile l’impatto che viene prodotto sul nostro popolo dalla propaganda aggressiva e milionaria delle sette evangeliche che, rispondendo spesso a orientamenti occulti di indirizzo politico, riesce a frenare l’impegno di promozione umana e integrale delle nostre comunità, disintegrandole con falsi spiritualismi e con promesse di una salvezza facile” 83. Se da un lato si può anche arrivare ad ammettere la presenza reale 83. Canova 1987:119. 71 di una componente politica che spingeva in questa direzione, non si può non considerare il fenomeno in una prospettiva più ampia. Allargando un poco lo sguardo infatti, è facile notare che negli stessi anni e più o meno con le stesse modalità, dall’altro capo del mondo, nelle periferie delle grandi metropoli dell’Africa, si stava verificando qualcosa di molto simile. Certamente si potrebbe ricondurre anche in questo caso il fenomeno all’influenza statunitense, visto che in effetti in Africa i movimenti neopentecostali si sono diffusi a partire dall’ambiente anglofono, ma tentare di trovarvi alla base un disegno politico anti-comunista credo sarebbe esagerato, almeno in questo caso. Una ragione più plausibile va dunque cercata in un’altra direzione e partendo da un altro punto di vista. Seguendo una delle più elementari regole del mercato, è chiaro che l’offerta cresce sempre laddove cresce la domanda e anche in questo caso penso che la chiave stia proprio lì, in questa semplice regola del mercato. Il punto però è individuare quale sia la domanda, la cui risposta è prima la nascita e poi l’adesione a questo tipo di esperienze religiose. Qual era la domanda, o il bisogno che negli anni ’80 caratterizzava le periferie delle grandi città dell’Africa e dell’America latina? Qual è oggi la domanda, o il bisogno, che muove gli immigrati latinoamericani e africani delle grandi e medie città europee a cercare rifugio e sostegno nei movimenti evangelici e neopentecostali? Forse individuare i termini corretti di queste questioni può anche aiutarci a riflettere su una possibile risposta alternativa che la Chiesa cattolica potrebbe provare a proporre, oggi in Europa, e magari domani in altre zone del pianeta. Se, come scrive CANOVA (1987:23): “Fin verso il 1930 la chiesa cattolica in America Latina si presenta come un blocco monolitico. A partire da questa data l’unità di fede del continente incomincia ad incrinarsi (...)”, le ragioni del cambiamento e dell’apertura ai movimenti sincretici, vanno ricercate nel periodo immediatamente posteriore. Che cosa accadde dunque tra gli anni ’30 e gli anni ’80 in America Latina di così particolare da portare ad un cambiamento così radicale nelle pratiche e nelle abitudini religiose di milioni di persone? In realtà non serve cercare risposte difficili, né sperare di trovarle nei discorsi filosofici. Semplicemente basta prender atto che in quegli anni avvenne in America Latina, e più o meno nello stesso periodo in 72 Africa, ciò che in Europa era avvenuto all’inizio del secolo precedente e che passò sotto il nome di Industrializzazione. Vicino ai centri di estrazione dei minerali e a ridosso dei grandi centri cittadini vennero costruite le prime fabbriche e le prime industrie che avevano bisogno di operai e manodopera e, da quel momento, masse sempre più numerose di contadini cominciarono a lasciare le campagne e le zone rurali per concentrarsi nelle periferie delle città, dove trovarono il più delle volte un’accoglienza tutt’altro che positiva e il miraggio di una fortuna facile e immediata si rivelò completamente fallace. Come scrive sempre CANOVA (1987:23), essi furono: “respinti ai margini delle metropoli ove sperimentano la tragedia della fame e della miseria e il dramma dell’abbandono materiale e spirituale, e dove incontrano come interlocutori che prestano loro attenzione soprattutto i movimenti pentecostali”. Fu dunque in un momento di grande cambiamento socio-economico, caratterizzato soprattutto da uno sradicamento doloroso dalla realtà di partenza, da un senso di spaesamento ed inadeguatezza dei propri sistemi di valori e della propria manualità nel far le cose anche più banali, accompagnati il più delle volte da un senso di solitudine e abbandono, frutto della scelta di lasciare gli affetti per rincorrere il denaro, e talvolta da un senso di frustrazione nel veder evaporare il proprio sogno senza alcuna possibilità di poterlo inseguire oltre, che la Chiesa cattolica perse l’occasione di dimostrarsi sufficientemente vicina al proprio gregge, e lasciò che altri offrissero ai propri ormai ex-fedeli quella comprensione e quell’accoglienza di cui essi, proprio in quel momento, avrebbero avuto maggiormente bisogno. Il passaggio ai nuovi movimenti religiosi può avvenire dunque alla ricerca di un riscatto sociale o di una solidarietà umana di un gruppo alternativo a quello che ci si è lasciati alle spalle e dal quale non si sente più di essere sostenuti, e tutto è reso più facile dal fatto che generalmente i movimenti evangelici e neopentecostali non impongono ai propri credenti il veto di frequentare anche chiese diverse. Come scrive DE SURGY (2001:333) a proposito dell’Église Évangelique Universelle infatti: “Un principio dell’E.E.U. è quindi quello di non impedire ai propri fedeli di frequentare parallelamente altre chiese, e una tale tolleranza favorisce le adesioni”. Se ci si mette nei panni di chi ha fatto la scelta di lasciare la sua casa per cercare fortuna nell’industria e nella città, è facile percepire il sen73 so di disagio e le mille difficoltà che la nuova vita da emigrante porta con sé. Tanto più dovrebbe essere facile per chi, come noi italiani, ha ancora viva la memoria dei nonni che hanno dovuto lasciare il paese per andare a cercar fortuna in Belgio, Francia, Germania, o semplicemente han dovuto lasciare la Sicilia o la Campania per lavorare alla FIAT di Torino e che hanno raccontato spesso con dolore tutte le umiliazioni e i problemi che hanno dovuto affrontare. Ancora una volta bisogna guardare al contesto specifico di partenza e di arrivo. Povertà a parte, infatti, il mondo che gli emigranti italiani si lasciavano alle spalle era tecnologicamente e culturalmente più o meno allo stesso livello del mondo in cui si sarebbero insediati, mentre lo scarto tra le città e le campagne dell’America Latina o dell’Africa nella prima metà del secolo scorso (ma anche oggi) era estremamente più evidente. In quei casi, il più delle volte si passava da villaggi in cui non c’erano acqua corrente, elettricità, strade e infrastrutture (mediche, sanitarie, amministrative) ad ambienti urbani che, nei quartieri ricchi, sfavillavano di luci, automobili, e insegne colorate di locali per ricchi. Di fronte a tutto questo, che ai loro occhi appariva come il paese del bengodi, in realtà però i migranti erano costretti a confrontarsi con la faccia peggiore delle periferie maleodoranti, dove non esistevano (e non esistono) ancora fognature, l’acqua si recuperava (e si recupera) con fatica da poche fontane mal servite e la gente era (ed è) costretta ad ammassarsi in baracche malsane dai tetti di lamiera, torride nei periodi caldi dell’anno e gelide nei periodi umidi e freddi. Ma vi era un altro fattore che contribuiva (e contribuisce) ad aumentare il senso di disgregazione sociale dei nuovi abitanti delle grandi periferie africane e latinoamericane: la lingua d’origine. Sebbene i migranti nostrani parlassero comunemente in dialetto nelle loro case, essi avevano tuttavia come passe-par tout una lingua franca che era l’italiano che avevano appreso nelle scuole, cosa che invece molte volte mancava ai latinos o agli africani di campagna che si riversavano negli anni ’50 e ’60 nelle grandi metropoli dei loro paesi. Soprattutto in Africa, sappiamo che il mosaico etno-linguistico di ogni stato è estremamente complesso e che sul territorio della Nigeria, solo per fare un esempio, si parlano più di 250 lingue diverse (lingue, non dialetti), appartenenti a famiglie linguistiche morfologicamente (strutturalmente) lontane tra di loro come possono esserlo il turco e il francese, o l’arabo e lo spagnolo e dunque, in mancanza di una lingua franca co74 mune, la comunicazione tra due parlanti provenienti da zone diverse del paese è praticamente impossibile. Se oggi globalmente il tasso di alfabetizzazione in un paese come la Nigeria si aggira intorno al 72%, non si deve dimenticare che il Mali è l’ultimo della lista dei paesi del mondo con un valore pari al 26,2 % e che l’Africa può vantare il triste primato di occupare nella classifica mondiale gli ultimi 13 posti 84 (al 14° c’è Timor Est con un tasso pari al 50,1%). Allo stesso tempo invece Bolivia e Perù possono esibire rispettivamente un buon 90,7% la prima e un dignitosissimo 89,6% il secondo 85. Si immagini a questo punto quale potesse essere la situazione più di 50 anni fa e che cosa questo potesse significare, visto e considerato che l’unico luogo in cui un africano di una zona rurale potesse imparare la lingua dello stato (e dei coloni - o ex-coloni dopo le indipendenze degli anni ’60) era la scuola. Se permettete un’osservazione da linguista, non è un caso che proprio nelle periferie delle metropoli africane e del sud-est asiatico siano nate e continuino a nascere lingue di strada, pidgin e creoli, composte da una variopinta miscellanea di lingue e strutture diverse in base al numero delle diverse componenti migratorie che ne popolano i quartieri poveri. Detto questo, mi pare facile comprendere come il senso di spaesamento, sradicamento, solitudine, inadeguatezza e scollamento dalla realtà possa essere stato (e possa ancora essere oggi) in quei contesti molto più forte e pesante di quello sentito oramai un secolo fa dai nostri nonni e bisnonni italiani. Di questo parere è ad esempio SCHIRRIPA, il quale, riguardo allo spostamento di masse di persone dalla campagna alla città in contesto africano, nel 1992 scriveva che esso “molte volte ha significato anche l’inasprirsi, soprattutto tra la popolazione immigrata, di situazioni di spossessamento culturale e di crisi di identità determinata dall’inadeguatezza dei valori tradizionali alla nuova situazione. È in questo contesto che bisogna collocare l’origine delle chiese spirituali presenti oggi in quasi tutto il continente” 86. Ancora, poco oltre, nello stesso testo si legge che: 84. Dall’ultimo: Mali 26,2%, Niger e Burkina Faso 28,7%, Guinea 29,5%, Ciad 31,8%, Etiopia 35,9%, Sierra Leone 38,1%, Benin 40,5%, Senegal 41,9%, Gambia 42,5%, Mozambico 44,4%, Repubblica centrafricana 48,6%, Costa d’Avorio 48,7%... in pratica nemmeno una persona su 2 sa leggere e scrivere. 85. Dati provenienti dal Rapporto delle Nazioni Unite sul Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo 2011. 86. Schirripa 1992: 18-19. 75 “il migrante si trova quindi stretto tra due visioni del mondo spesso tra loro contrastanti, che creano un evidente stato di crisi d’identità” 87. Tornando alla nostra domanda di partenza, e cioè quale sia il bisogno dei migranti a cui i movimenti religiosi alternativi sono stati in grado di dare una risposta, laddove la Chiesa cattolica ha fallito, mi pare che a questo punto la risposta sia evidente. Data la perdita di punti di riferimento, di una propria identità socioculturale, di una rete assistenziale-solidale, di un contesto positivo e conosciuto, e dato il fatto di trovarsi invece in una condizione lavorativa e affettiva precaria, in un ambiente culturalmente lontano, caratterizzato da un’identità estranea a quella di provenienza, che il più delle volte si fatica a capire e che comunque risulta chiusa e inospitale, il bisogno principale di quelle masse di migranti non poteva che essere la ricostituzione di un universo cognitivo, sociale e identitario adeguato, la costruzione di una nuova rete assistenziale e di un ambiente umano capace di togliere, o quanto meno alleviare, le angosce di una vita che si sentiva essere allo sbando. FOLEY & HUGE, nella loro lucidissima analisi del fenomeno delle sette e dei movimenti cristiani alternativi negli Stati Uniti d’America, su questo tema, partono dall’assunto che: “Storicamente le comunità di culto degli immigrati hanno rappresentato luoghi importanti per rinforzare l’etnicità (...). Le comunità di culto rinforzano l’etnicità in primo luogo offrendo un contesto comune in cui persone provenienti da background simili possono incontrarsi (...)” 88. Anche SCHIRRIPA, riferendosi al fenomeno in Africa, arriva alla stessa conclusione e scrive: “Attraverso originali sincretismi tali chiese hanno sviluppato un discorso che va incontro alle esigenze di riaggregazione culturale e di riorientamento cognitivo delle popolazioni africane” 89, e credo che a questo punto si possa facilmente accettare che la stessa cosa debba valere anche se applicata qui (a Bergamo, in Europa), oggi, alle comunità dei nostri immigrati. Se consideriamo le interviste che abbiamo analizzato nei mesi scorsi, il problema della solitudine e della necessità di sentirsi accolti, così come quello della nostalgia per il proprio paese d’origine e per il senso di comunità che lì si respirava, emergono moltissime volte, nonostante i 87. Schirripa 1992: 47. 88. Foley & Huge 2007: 194. 89. Schirripa 1992 p. 19. 76 nostri nuovi ospiti nella maggioranza dei casi siano tutt’altro che persone poco istruite. Il fatto è che comunque l’orizzonte socio-culturale di riferimento anche per chi ha un livello di scolarità molto alto, in contesto migratorio cambia, e cambia tantissimo, senza dimenticare che il più delle volte ci si ritrova costretti a dover convivere con un’ulteriore frustrazione: quella di doversi dimenticare dei propri titoli di studio, conquistati a fatica e con un notevole impegno economico, perché lo stato italiano non ne riconosce la validità. Riporto qui di seguito solo alcuni dei brani più significativi. S. R., boliviana, 38 anni, racconta tra le lacrime: “Mi mancano quelle persone che conoscevo e come era la vita della comunità evangelica nel mio paese (...) Manca l’accoglienza, le persone comunque sono fredde, finita la S. Messa se ne vanno e finisce così e molti pensano molto alle cose materiali, non a come ti senti in certe situazioni. Manca un sostegno veramente “spirituale”, non di catechesi, ma di sperimentare insieme ad altri esperienze di vita religiosa … non so come spiegarti, ricordavo ai miei nonni in Bolivia. (...) Nella chiesa che sono andata parlano in spagnolo. C’è anche la chiesa di Don Mario, è bello perché tutti cantano in spagnolo. Mi piace moltissimo.(...). Tra i boliviani, tra i latinoamericani e tra gli stranieri in generale, c’è solidarietà” 90. Jessica, nigeriana, parlando purtroppo delle sue connazionali vittime della tratta: “Loro si fidano dei loro connazionali: per quello non vanno alla chiesa cattolica perché hanno paura, perché non sanno bene l’italiano (...)” 91. E poi Kevin, 47 anni, nigeriano, uno dei mediatori che hanno collaborato alla nostra ricerca, ci spiega che: “i nigeriani cristiani in Italia cercano un’ identità ed un’unità dei cristiani dato che nella loro patria sono messi ai margini ed esclusi dal potere. Molti nigeriani cristiani sono originariamente cattolici ma in Italia non riescono a comunicare con i preti dai quali sentono di essere visti con diffidenza” 92. E infine Salomon, 41 anni, etiope, racconta in poche parole una cosa per noi interessantissima, ovvero come e quando avviene la scissione tra due movimenti e la nascita di una nuova chiesa indipendente in cui la componente etnica è un fattore scatenante: “Quando è arrivato a Bergamo grazie ad un’ami90. EstrellaInt1. 91. LiviaInt6. 92. SilviaInt1. 77 ca etiope sposata con un italiano ha iniziato a partecipare al culto in una chiesa in via S. Bernardino appartenente alle Assemblee di Dio in Italia. All’inizio partecipavano solo in tre o quattro etiopi, poi quando sono diventati un gruppo considerevole fra etiopi ed eritrei hanno deciso di ritrovarsi separatamente per poter pregare e celebrare nella loro lingua, l’amharico. Il suo gruppo religioso, genericamente chiamato Chiesa Evangelica d’Etiopia (...)” 93. Questo è confermato anche dallo studio di FOLEY & HUGE, i quali scrivono: “Se il flusso migratorio di un gruppo particolare è esiguo, i membri di quel gruppo possono ridurre le proprie differenze regionali o tribali (...). Fare questo racchiude talvolta un faticoso aggiustamento da un’identità regionale a un’identità nazionale (...). Quando il flusso migratorio continuo rende una comunità abbastanza grande per crearsi una sua chiesa o una sua moschea, essa lo fa” 94. Nel caso dei nostri etiopi si era trattato in un primo momento di un adattamento ad un’identità sovranazionale di africani, ma il meccanismo della scissione ha seguito esattamente l’andamento descritto dai due studiosi statunitensi. Ma lasciamo per ora il tema dell’inclusione, sul quale torneremo nel prossimo capitolo e concentriamoci sugli altri elementi caratteristici di questi nuovi culti, capaci di far presa così profondamente sui nostri immigrati. Visto il quadro che abbiamo appena delineato, è chiaro che uno dei fattori principali non possa che essere il messaggio di salute e successo globale che questi movimenti propongono, secondo la già citata teologia della prosperità. Questo modo di vedere le cose risponde infatti contemporaneamente a due bisogni fondamentali dei nostri immigrati: da un lato quello evidente del riscatto sociale e dall’altro, quello più radicato nelle culture originarie, della difesa e della protezione dalle forze del male, che si risolve in una garanzia di equilibrio e di vigore dell’unità tra il corpo sociale (la comunità) e l’individuo, e allo stesso tempo tra il corpo fisico e la mente del singolo fedele. È come se l’immigrato (o la persona in crisi d’identità e di fede in generale) avesse bisogno di ritrovare se stesso attraverso un’esperienza di comunità e di rapporto diretto con un Dio che vuole sentire vicino, interessato, capace di indicare la via giusta senza possibilità di fraintendi93. SilviaInt2. 94. Foley & Huge 2007: 195. 78 menti, come un padre buono, ma severo, che punisce e premia a seconda dei meriti di ciascuno. Un Dio di questo genere e una comunità che ti aiuti a “leggere” gli avvenimenti della tua vita in questo modo ti aiutano anche a dare senso a quelli che potremmo definire i casi della vita e a trovare sempre una ragione (che piaccia o meno) per tutta la negatività che ti può colpire, che a quel punto può diventare punizione divina (e allora la comunità ti aiuterà a correggere i tuoi comportamenti sbagliati), intervento del maligno (e allora ricorrerai ai riti di liberazione e di esorcismo), oppure prova divina per farti accedere ad altri stadi della conoscenza e del rapporto con Dio (e allora, ad esempio, sarà durante una malattia molto dolorosa, o a seguito di un incidente, che sentirai di essere “chiamato” da Dio a diventare uno dei suoi pastori). Cambia il nome della divinità, ma restano i valori, i meccanismi e i ragionamenti tipici delle religioni tradizionali. Il nuovo si accetta in tanto in quanto capace di sostituire in maniera più “moderna” ed efficace il vecchio, ma la visione del mondo e delle leggi ultraterrene che lo regolano, restano praticamente inalterati e come scriveva anche SCHIRRIPA nel 1992, queste chiese, che rappresentano per l’appunto un modello di salvezza globale, sono “una risposta complessiva ai disagi materiali e morali che nascono dalla complessa situazione del paese” 95. D’altro canto, come dicevamo, questa visione pervasiva della divinità e questo senso di unità tra salute psichica / morale e fisica non sono lontane nemmeno dalla nostra percezione quotidiana del mondo e delle cose, tant’è vero che LANTERNARI nel 1994 96 accomuna la proliferazione delle medicine alternative di oggi, non ad un fenomeno di ritardo culturale, com’era l’idea di molti che ritenevano che solo le persone di bassa cultura si rivolgessero a santoni indiani improvvisati, yoghini, maghe e cartomanti di ogni genere, prima di essere smentiti dai fatti e dalle operazioni di polizia degli ultimi anni, bensì alla creatività spontanea e adattiva dell’essere umano che mira a recuperare, all’interno di un mutato contesto di riferimento culturale, l’unità soma-psiche. È proprio questo l’aspetto che si riscontra, secondo lo studioso, nelle terapie carismatiche, nelle quali spesso, come abbiamo visto e come vedremo più in dettaglio poco oltre, ci sono la riscoperta e la rivaloriz95. Schirripa 1992: 189. 96. Lanternari V. (1994). “Culti carismatici comunitari come terapie alternative”, Cap. 2 in Lanternari V. Medicina, magia, religione, valori, vol. I, Napoli: Liguori Editore. 79 zazione di pratiche mediche ispirate a criteri fideistici, spirituali e mistici in una ri-unione di religione e pratica medica, che è la prassi in tutte le culture tradizionali dell’Africa, del Sud America e dell’Asia. A questo si deve poi aggiungere il fatto che nelle società di provenienza dei nostri immigrati una delle preoccupazioni principali, vuoi per le scarse disponibilità economiche, vuoi per la difficoltà oggettiva di trovare strutture mediche e ospedaliere adeguate, è proprio legata alla salute fisica e, come abbiamo già visto, l’itinerario terapeutico di un malato può prevedere diverse tappe e un continuo andirivieni tra terapisti tradizionali, impegnati soprattutto sul fronte mistico, e medici formati alla scuola occidentale, che credono solo nelle leggi della fisica. A questo proposito SCHIRRIPA, riferendosi all’esperienza della Musama Disco Christo Church, fondata da un metodista, J. W. Egyanka Appiah, diceva che: “differenti, se non contraddittorie, ideologie della malattia e della guarigione, spesso compresenti nello stesso individuo, rendono possibile il ricorso a differenti soluzioni terapeutiche, che nella coscienza dei protagonisti non vengono avvertite come contraddittorie” 97 e una di queste soluzioni si trova esattamente nelle pratiche di liberazione dei movimenti sincretici che stiamo analizzando. Ma torniamo al lavoro di Vittorio LANTERNARI 98. Confrontando una serie di diversi movimenti sincretici di tutte le parti del mondo, LANTERNARI è arrivato a stilare un elenco di tutte le caratteristiche in essi riscontrabili e capaci di garantire ai fedeli (e ai pastori in buona e in malafede) l’effetto desiderato di riconciliazione tra se stessi e il mondo. Tali caratteristiche sono, in breve, quelle che elencherò qui di seguito. Non è un caso che tutte si ritrovino senza fatica nelle descrizioni delle osservazioni dei culti ai quali abbiamo avuto occasione di partecipare e nelle testimonianze riportate nelle interviste fatte nei mesi scorsi nella nostra Diocesi. Ad ogni punto dell’elenco alleghiamo alcuni brani a titolo di esempio: 1) Un’atmosfera di coinvolgimento emozionale collettivo. Nelle nostre osservazioni si sono notate diverse strategie per arrivare a questo. Prime fra tutte l’uso della retorica, della gestualità, definita alcune volte anche teatrale, e della voce da parte del leader e lo stimolo, tramite l’intervento di diaconi e diaconesse, alla risposta corale di 97. 1992: 189. 98. Cf. Lanternari (1994a). 80 fronte all’esternazione di preghiere personali o di testimonianze spontanee di guarigione. LiviaOss5 (Chiesa Pentecostale Ghanese - Rancio di Lecco): “Il volume del microfono e anche il tono di voce del pastore e della diaconessa sono sempre piuttosto alti. Il pastore in particolare parla con una modalità che spesso va in crescendo fino ad urlare seguito dai fedeli che pregano a voce alta (...) Il pastore inizia a pregare e man mano alza la voce e con lui iniziano a pregare tutti insieme anche i fedeli. Poi inizia ad urlare degli slogan (es. Gesù Cristo ti salverà! Noi ci dobbiamo credere!) e gli altri in sottofondo continuano a pregare (...) Ora è il momento della predica della diaconessa Stella (...) Il suo tono è concitato, urla e gesticola molto. A volte sussurra e guarda intensamente negli occhi alcune persone. E ripete spesso alleluia. (...). La diaconessa e il pastore. Entrambi sono molto teatrali, hanno una gestualità molto accentuata”. LiviaOss1 (Chiesa Evanglica Bethel - Lecco), riguardo ai modi usati da un missionario ivoriano, il pastore Mao: “La mimica, la voce molto alta, il modo di parlare sono stati molto “mediatici”: ha ripetuto il medesimo concetto molte e molte volte facendo diversi esempi anche scherzosi. Il discorso è durato più di un’ora”. EstrellaOss1 (Chiesa Evangelica - Seriate): “Le testimonianze sono state molto brevi di guarigione, di fede, di superamento personale; ho sentito una testimonianza più lunga da parte di un pastore, e mentre lui parlava i presenti applaudivano accompagnavano con “alleluia”, “amen” ecc”. EstrellaOss2 (Chiesa Evangelica Cristiana - Porta Nuova): “La predica può durare anche un’ora, dove tutti stanno in silenzio ed ascoltano, il tono del pastore è moderato ma quando arriva alla fine alza la voce per far enfasi sul messaggio che vorrebbe far passare. Poi invita le persone che vorrebbero ricevere nei loro cuori Cristo Gesù, e chiede se vogliono passare avanti o alzare la mano. Poi si avvicina e prega per le persone che hanno alzato la mano, nel frattempo i presenti cantano lodi, con voce sommessa”. SilviaOss1 (Family Prayer Fellowship - Via Corridoni): “Mrs Margaret è molto carismatica e molto coinvolgente nel suo modo di parlare: durante il suo discorso stanno tutti attenti, ci sono momenti in cui ridono, altri in cui si commuovono. La “claque” di donne in giallo è scatenata, ad ogni frase grida Amen, passa dall’entusiasmo a momenti di profondo raccoglimento (non direi proprio trance), ogni tanto qualcuna 81 si inginocchia. Dopo circa un’ora e mezza Mrs Margaret sta ancora parlando a tutto volume”. 2) Un’ideologia religiosa enunciata direttamente da un leader carismatico, il quale è convinto di essere in rapporto diretto con Dio. Sebbene alla base di tutti i culti ai quali abbiamo avuto modo di assistere ci sia la teologia della prosperità, ogni leader interpreta il testo sacro un po’ come gli pare e pone l’accento sugli aspetti che più gli si confanno. Abbiamo raccolto testimonianze di pastori che ci hanno raccontato della propria conversione in termini di “chiamata” diretta di Dio 99 e allo stesso tempo dichiarazioni di fedeli che descrivevano il pastore come un uomo di Dio, dando anche prove di fatti inspiegabili, se non ammettendo l’esistenza di una comunicazione reale tra il pastore e Dio. LiviaInt3: “Il pastore era una persona che se la godeva e beveva. Suo fratello l’ha mandato in una chiesa in Costa d’Avorio dove lui non voleva andare. È andato un giorno solo e lo Spirito Santo l’ha colpito e lì è cambiata la sua vita. Il suo dono di pastore è stata la chiamata. (...) Lei sostiene che una persona che predica la parola di Dio vuol dire che ha un dono di Dio. (...) Il pastore è un uomo chiamato da Dio (...) Dago ha avuto fede che il pastore fosse un uomo di Dio: prega sempre che la saggezza di Dio riempia il cervello del pastore che può sbagliare ma ha bisogno di allenamento”. LiviaInt1 (al pastore della chiesa Ministère de la Grace et de la Délivrance di Lecco): “Dio ha chiamato noi che siamo stranieri a venire in questa terra e noi abbiamo vissuto in questa terra e abbiamo voluto esprimere i nostri sentimenti di riconoscenza e attaccamento con popolo di Dio con le nostre modalità e la nostra dimensione del popolo di Dio”. LiviaInt5: “Un giorno io ho chiesto al pastore perché non seguivano un ordine e lui mi ha detto che Dio ogni domenica gli suggeriva la pagina che dovevano andare a leggere e commentare. Secondo lui quindi è Dio che lo istruiva”. 3) Periodici assembramenti religiosi. Tutte le comunità che abbiamo visitato si ritrovano almeno due volte la settimana, una la domenica o il sabato per il culto collettivo, l’altra 99. Già riportate a p.42-43; LiviaInt1, 2 e 6. 82 in un giorno feriale per riunioni più ridotte, di preghiera. Spesso in queste occasioni vi è una distinzione di genere (gli uomini si ritrovano tra uomini e le donne tra donne) ed è in queste giornate che il più delle volte si attivano i gruppi di prayer warriors per i riti di liberazione più impegnativi. LiviaInt3: “Il martedì sera c’è anche la scuola della preghiera che si chiama partage biblique: c’è una persona della chiesa incaricata di fare questa cosa. Non lo fa il pastore. Quindi il martedì una parte delle persone prega e una parte fa scuola della parola. (...) Cerimonie particolari si fanno il martedì per pregare per chi non si sente bene. Per qualsiasi cosa bella o brutta chiamano il pastore. Quando uno sta male ci possono essere diverse cause: il “paziente” prima chiede aiuto al pastore che se non riesce a risolvere propone il digiuno per sé stesso e il malato. Se nemmeno con questo si risolve il problema intervengono anche i fedeli”. LiviaInt1: “(La comunione) Non è tutte le domeniche. Viene annunciato quando c’è. Le preghiere che facciamo al venerdì sera sono un modo per preparare le persone. Dicendo quando ci sarà la comunione danno il tempo ai fedeli di prepararsi: ad esempio domenica prossima ci sarà la comunione. Quindi chi vuole venire a fare la comunione deve iniziare a prepararsi (...) Uno ha tempo di mettersi in condizione di essere pronto per prendere la comunione. Le preghiere hanno questo scopo di preparare le persone a capire e accogliere la parola di Dio per poi metterla in pratica. I mercoledì sera insegniamo la parola, il venerdì sera facciamo la preghiera”. LiviaInt5: “Ogni giovedì le donne della Chiesa si trovano a turno nella casa di una di loro e lo stesso fanno gli uomini. Cantano, suonano e mangiano insieme. Poi viene benedetta la casa. Quando sono venuti a casa – quando ho preso un appartamento da solo con la mia famiglia in ogni stanza che entrava il pastore diceva che doveva essere pulita dalle maledizioni. Il pastore parlava da solo nella stanza e la benediceva scacciando gli spiriti maligni”. EstrellaInt3 (al pastore M. A.): “Come ho detto prima, se siamo fratelli come in una famiglia normale ci aiutiamo e ci rafforziamo l’uno con l’altro. A volte ci sono momenti di grande prova, a volte in molti sono in difficoltà, economica, spirituale, di animo e via dicendo; in questi momenti organizziamo dei gruppi di preghiera anche nelle proprie case o famiglie. La preghiera del giusto può molto”. 83 4) L’attribuzione al leader carismatico di poteri miracolistici impartitigli dall’ente divino. Spesso al leader sono attribuiti poteri divinatori, di guarigione e di liberazione da agenti malefici, tramite l’imposizione delle mani o la semplice preghiera. SilviaOss1 (Family Prayer Fellowship - via Corridoni): “Vi è la testimonianza di una fedele, Cinzia: con in mano il proprio permesso di soggiorno, racconta che dopo due anni in cui era rimasta senza lavoro, nonostante svariati tentativi in Questura, non era riuscita a mettere i propri documenti in regola, ma finalmente dopo aver sognato Mrs Margaret è ritornata in Questura e le hanno detto che era tutto a posto”. 5) Fenomeni di glossolalia, esaltazione mistica, trance, tremito, atteggiamenti coreutici, preghiere collettive, imposizione delle mani, imposizione di nomi e unzione con olii vari, pratiche di guarigione durante i riti collettivi. Durante le nostre osservazioni abbiamo potuto assistere a quasi tutti questi fenomeni, l’esaltazione mistica, che si manifestava nelle persone, tramite l’ossessiva ripetizione dell’amen e dell’alleluia in un crescendo di emotività (lacrime e visi stravolti), gli atteggiamenti coreutici, il dondolio delle persone al ritmo della musica, il cui volume veniva sapientemente alzato e abbassato durante tutto il rito, seguendo l’andamento del flusso emotivo della celebrazione, la proclamazione delle preghiere e delle testimonianze, le preghiere collettive e l’imposizione delle mani, spesse volte solo su chi ne facesse espressa richiesta, o su chi si sentisse particolarmente toccato e coinvolto dal sermone del pastore e bisognoso di aiuto rispetto a ciò di cui si era parlato. Non abbiamo potuto assistere ad episodi di glossolalia, o a pratiche di guarigione o di esorcismo, anche se abbiamo raccolto diverse testimonianze in proposito e anche se in un caso è successo che una delle intervistatrici (Estrella) venisse allontanata dalla sala in cui si eseguiva il rito proprio nel momento in cui da lì dentro provenivano urla e rumori strani. La liberazione dalla forze del male, sia tramite esorcismo, sia tramite preghiere forti di liberazione è ad ogni modo una delle costanti in questo tipo di culti. A questo proposito DE SURGY (2001:306) sulla Église Protestante Baptiste, scrive infatti, ad esempio, che: “Le combat contre Satan demeure l’une de leurs préoccupations majeures”. LiviaInt3: “Ad esempio se una persona è stata legata da spiriti malvagi solo il pastore con i collaboratori stretti possono guarirlo. Non lo 84 possono fare tutti perché se ti distrai gli spiriti malvagi entrano dentro di te. Le persone urlano, piangono, vomitano ma il pastore continua a pregare per fare uscire gli spiriti malvagi. Ci sono anche i feticci (grigri) che possono essere buoni o cattivi. Se uno spirito è cattivo, le persone cattive possono fare arrivare la stregoneria. Le persone che si ammalano psicologicamente in Italia è perché qualcun altro ha fatto arrivare la stregoneria dall’Africa. Ci sono persone specializzate nel far male ad altre persone: infatti in Africa si pagano gli stregoni per far ammalare qualcun altro con le fatture. Queste malattie si curano con le preghiere. Gli spiriti buoni aiutano le persone: il cugino di Dago è malato di alcolismo perché qualcuno gli ha fatto un incantesimo (nganga) per cui lui vuole bere sempre. Non serve un dottore per curare malattie come queste”. LiviaInt5: “C’erano anche gli esorcismi durante la cerimonia: ognuno poteva chiedere di essere esorcizzato dal pastore ma non so se dovesse pagare. Chi chiedeva di essere liberato si metteva in piedi davanti al pastore e lui pregava ad alta voce. Dopo un po’ di tempo cominciavano a tremare, a dimenarsi. Altre saltavano intorno a loro, altre si mettevano in ginocchio a piangere…io guardavo, ma cercavo di chiudere gli occhi. Perché non mi piaceva”. IlaInt1: “Anche a me capita di parlare nella lingua dello Spirito, che non è una lingua degli uomini, è una lingua che capisce solo lo Spirito”. LiviaInt4: “Le persone che l’hanno davvero seguito parlano altre lingue grazie allo Spirito stesso perché quando uno adora il Signore gli fa dire parole che non sa e parlare lingue sconosciute.” LiviaInt6: “Io sono andata alla Chiesa Evangelica di Redona in via Corridoni, ora si sono spostati a Torre Boldone. Il pastore entrava in una specie di trans, prendeva delle persone che stavano male, avevano delle convulsioni, le metteva in mezzo alla folla e li spintonavano urlando e cantando a squarciagola. Ho visto prendere una ragazza e buttarla per terra perché chiedeva di essere guarita da una malattia! Anche una mia amica aveva chiesto di essere curata con la stregoneria ma poi per fortuna siamo andate dal medico!”. 6) L’idea di una salvezza totalizzante che porti salute fisica, emotiva, mentale. Come si è detto questo concetto sta alla base di tutti i culti che abbiamo incontrato. Questo risulta evidente anche nel modo di porsi del pastore nei confronti dei suoi fedeli e nella stima che i fedeli dimostrano di ave85 re nei suoi confronti, soprattutto nelle chiese africane, in base al fatto che egli si presenti, anche visivamente, come una persona di successo, ben vestita, con una bella famiglia, senza problemi, piuttosto che mal vestito, con un’auto vecchia e malmessa e magari senza famiglia. Più sei uomo di fede e timorato di Dio, più devi avere successo nel mondo, quindi tanto più il pastore è uomo di successo, tanto più questo significa che Dio è con lui. IlaInt1: “Non importa che problema hai, se lo Spirito viene dentro di te, tu sei salva (...) Ti senti forte, lo Spirito ti dà power e tu ti senti meglio. Poi torni a casa e sai che hai incontrato lo Spirito e i tuoi problemi non ci sono più. Tutti sono più piccoli...”. SilviaInt3: “Quando qualcuno di loro non sta bene fisicamente o spiritualmente si radunano per fare una preghiera particolare”. 7) La visione della malattia come manifestazione del “male del mondo”. Questo è un tratto che potremmo definire di sostrato per tutti gli immigrati africani e latinoamericani che abbiamo incontrato e che deriva loro dal background culturale di partenza. Tuttavia nessuno, in nessuna delle interviste che abbiamo realizzato, si è espresso apertamente in questi termini. 8) La guarigione, vera o presunta, conclamata pubblicamente, in modo da creare nuove attese per nuovi miracoli e alimentando la fiducia nel potere del leader. In quasi tutti i culti ai quali abbiamo assistito era previsto un momento di raccoglimento, durante il quale i fedeli davano testimonianza di guarigioni inspiegabili, spirituali (un passaggio repentino da una vita di peccato all’incontro con Dio) o fisiche. EstrellaInt10: “Il male è sempre pronto ad attaccare, ed è anche dentro di noi … per questo abbiamo bisogno di protezione. La Bibbia ci da molti spunti come fare per superare l’attacco di spiriti maligni. Noi usiamo anche l’olio santo e cospargiamo a volte tutta la casa ed i luoghi dove lavoriamo. Facciamo digiuni e preghiere quando sentiamo che siamo turbati. A volte c’è bisogno di aiuto da altre persone che hanno una fede più ferma. Noi lo chiamiamo “disciplinare”, qualcuno che ci esorta con la Santa Parola in mano ad essere più forte”. 9) La certezza di trovarsi di fronte alla presenza viva dello Spirito, che dà forza. 86 Anche di questo abbiamo raccolto diverse testimonianze durante le nostre interviste. DE SURGY (2001:9) sulla discesa dello Spirito Santo su un fedele, scrive: “Quando lo Spirito entra in una persona, non lo fa per tirarla fuori da un oceano di miseria, bensì per donarle la forza di rimediare ad ogni tipo di male, non avendo altra vittoria di quella di arrivare, con il Suo aiuto, a combattere con sufficiente forza, il principio del male che non si vede”. IlaInt1: “Sì, quando io prego e lo spirito viene, viene anche per guarire... la malattia ti viene perché la tua anima è malata e lo spirito la può curare. E se lo Spirito la cura tu guarisci. E più sono le persone che pregano per te e con te, più lo Spirito è costretto ad ascoltare le tue preghiere... non lascia soli quelli che si rivolgono a lui (...) io prego sempre, quando sono lì che non ho niente da fare, prego, penso allo Spirito e lo chiamo e lui viene... anche qui nella mia stanza. Lui è sempre con te e ti vede, quando fai le cose buone e quando fai cose cattive”. SilviaInt3: “A volte pregano “forte” per invocare lo Spirito di Dio e “il sangue di Gesù” e benedire l’olio che viene messo dal pastore sulla fronte del malato spirituale o sulla zona malata del malato fisico”. Come si è visto dunque, tutto ciò che abbiamo osservato nella nostra Diocesi rientra in un filone perfettamente coerente di un certo tipo di spiritualità che non si può semplicemente derubricare sotto il titolo di “faciloneria”, visto e considerato che in Africa, così come in America latina e in Asia, anche molti personaggi politici, perfettamente integrati nella loro società, molto istruiti e dotati di una razionalità indiscussa, si proclamano fedeli di movimenti religiosi del tipo descritto sopra. Esiste quindi il rischio reale, da non sottovalutare, che molti dei fedeli della Chiesa cattolica presto o tardi arrivino a rivolgersi ad essi con la stessa tenace volontà, esiste e non è affatto da sottovalutare. Prima di passare ad analizzare quello che personalmente ritengo essere l’elemento essenziale, il mitico canto della sirena che attira gli immigrati, un tempo cattolici, verso i nuovi lidi dei movimenti carismatici evangelici e neopentecostali, ovvero il senso di inclusione e appartenenza ad un gruppo e ad una nuova comunità, vorrei però spendere ancora poche parole su altri elementi del rito che per un tradizionalista sono evidentemente carichi di significato e che invece nella Chiesa cattolica, quanto meno in Europa, o non sono presenti, oppure vengono vissuti secondo una modalità che gli immigrati considerano troppo fredda, distante, asettica. 87 Restiamo dunque per un momento ancora sul tema del perché questi movimenti sincretici risultino più attraenti del rito cattolico per chi arriva da terre come l’Africa o l’America latina e lo facciamo concentrandoci su due aspetti fondamentali: a) gli oggetti e i simboli del culto; b) le azioni e le dinamiche di alcune parti della celebrazione collettiva settimanale. Fermo restando che tutti i movimenti di cui ci stiamo occupando e che abbiamo incontrato nel corso della ricerca sul terreno sono di derivazione e di matrice cristiana protestante, va da sé che il principale oggetto di culto debba essere il Libro Sacro, e nello specifico, non il Nuovo Testamento, bensì la Bibbia. Ogni fedele possiede una sua Bibbia e ritiene che attraverso di essa, grazie anche solo alla preghiera e alla meditazione personale, Dio possa comunicare con lui. Non esistono persone più o meno preparate per ricevere nel proprio intimo la parola di Dio. Ciascuno può leggere il messaggio del Signore nelle parole delle scritture e non è affatto raro che i fedeli, anche giovani, o convertiti da poco, conoscano molti versetti a memoria, e li citino per sottolineare le proprie idee riguardo a questo o quel problema. Leggere e spiegare la Parola in ambiente evangelico e neo-pentecostale, ma direi protestante in generale 100, non è una cosa riservata al pastore, anche se di norma il pastore dovrebbe rappresentare la persona più saggia della comunità e dunque quella più adeguata al compito delicato di guida delle anime. Lo Spirito può decidere di manifestarsi anche al peccatore più impenitente e provocarne la conversione in maniera anche molto repentina e infatti in molte delle storie di conversione che abbiamo raccolto, anche di pastori, si narrano cose di questo genere. Essendo la Bibbia il Libro Sacro per eccellenza, esso rappresenta per molti anche un potentissimo amuleto. Nella maggioranza dei luoghi di culto che abbiamo potuto visitare, ad esempio, non c’erano croci, mentre il Libro era addirittura ostentato. Estrella, che ha avuto modo di lavorare anche con i bambini, ha potuto notare che tutti quanti avevano con sé una copia personale della Bibbia 100. Non entriamo qui nello specifico delle diverse confessioni, poiché il loro atteggiamento nei confronti della Parola è equivalente. 88 e che già da piccoli erano in grado di citarne brani imparati a memoria (EstrellaInt 2, a D.B., boliviana di 13 anni). In ogni momento oscuro della vita il fedele è certo di poter trovare nelle pagine del Libro, aprendolo a caso, dopo una buona preghiera, la risposta alle proprie angosce, e si affida spesso a questo sistema per leggere secondo il suo schema di riferimento in cui tout se tient gli accadimenti che caratterizzano le sue giornate. È così che la Bibbia diventa quasi un oggetto degno di un culto riservato e guadagna, anche visivamente nel luogo di ritrovo, una posizione assolutamente preminente. Come descrive Estrella ad esempio, nella Chiesa Evangelica Cristiana di Porta Nuova, “Contro il muro c’è un altare, dentro l’altare una Bibbia con una luce che illumina continuamente” 101. Di contro a questa esibizione della Bibbia, colpisce invece noi cattolici la sistematica (o quasi) assenza della croce dai luoghi di culto, l’assenza del segno della croce durante le celebrazioni e di massima l’assenza del simbolo della croce anche ad esempio tra le collane o i gioielli (visibili) portati dai fedeli. Evangelici e Pentecostali, così come tutti i protestanti, credono nella morte e risurrezione di Cristo, ma il più delle volte essi non espongono la croce, perché essa rappresenta il momento più difficile della vita di Cristo (e non la sua vittoria!) e non usano farsi il segno della croce, perché non ne trovano l’origine nelle Sacre Scritture. Da questo punto di vista è molto interessante ciò che racconta Livia, dopo aver partecipato ad una serata di catechesi della Chiesa Ministère de la Grace et de la Délivrance di Lecco: “La catechesi si chiude nuovamente con una preghiera ad alta voce tutti insieme. Il pastore chiede ai presenti se hanno domande e io chiedo perché non ci sono croci in questa chiesa, visto che anche loro riconoscono il sacrificio di Cristo come atto di amore che ha compiuto per noi e su cui si basa tutte la nostra fede…ho spiegato che ho chiesto questa cosa perché in nessuna delle chiese in cui siamo stati c’è mai stata una croce.,…che è il simbolo della religione cristiana per eccellenza. Sono quindi arrivata a pensare che ci fosse un pensiero diverso sul sacrificio di Cristo, ma da questa catechesi invece sembra che non sia così….. Pierre – l’interprete ndr – spiega anche che la mia domanda (di cui io avevo ampiamente parlato con 101. EstrellaOss2. 89 lui durante i vari viaggi per arrivare alle diverse chiese) deriva dal fatto che per i cristiani cattolici un luogo è sacro dove c’è una croce che è il simbolo della nostra religione… Il pastore mi risponde che la loro chiesta c’è da poco (dal 2008…) e che stanno pensando di comprare una grande croce da mettere al centro della parete dietro il leggio ma che stanno ancora raccogliendo i soldi… Gaston invece mi dice che la croce per loro è quella che metaforicamente ti porti ogni giorno, e che sei consapevole di portare seguendo la parola di Cristo, quindi non serve che sia esposta perché è dentro di te…” 102. Questo scambio tra la nostra volontaria, il pastore e uno dei fedeli che era seduto accanto a lei è molto significativo, perché mette in evidenza quanto poco importante (o forse anche quanto imbarazzante) sia di fatto per questi movimenti la croce di Cristo. Dal 2008 alla fine del 2012 la Chiesa non aveva avuto modo di trovare una croce da esporre, mentre per l’attrezzatura della band erano state spese probabilmente diverse migliaia di euro. A mio avviso il fatto è che, dal punto di vista teologico, tutti questi culti sottolineano di Cristo, non tanto la sua umanità e di conseguenza la sua umana accettazione ed esperienza della sofferenza e della morte, quanto il suo potere e la sua vittoria su quella sofferenza e su quella morte, dunque la sua resurrezione e la sua manifestazione nel giorno della Pentecoste con l’elargizione dei doni dello Spirito Santo ai suoi seguaci. In quest’ottica la Croce diventa simbolo imbarazzante di un momento di debolezza che va superato, mentre l’accento si pone sul trionfo finale del Dio che tutto può per chi a lui si affida. Anche nelle parole di Gaston “la croce per loro è quella che metaforicamente ti porti ogni giorno, e che sei consapevole di portare seguendo la parola di Cristo” 103, la croce diventa segno distintivo della condizione umana, mentre la condizione divina è quella di colui che l’ha superata e l’obiettivo del fedele è arrivare a liberarsi delle croci del quotidiano, restando ligio ai dettami delle scritture e ottenendone in cambio l’elargizione di ogni bene, materiale e spirituale, di cui si parla così spesso nella Bibbia. Altri oggetti legati al culto e considerati sacri sono l’acqua e gli olii benedetti 104, strumenti per eccellenza destinati alla protezione dalle for102. LiviaOss4. 103. Sempre LiviaOss4. 104. Anche se molti fedeli li definiscono santi questi oggetti non sono quelli che i vescovi cattolici preparano nella notte di Pasqua. 90 ze maligne e da qualsiasi genere di aggressione o infestazione demoniaca, anche di ambienti. Molto frequenti sono infatti le visite a domicilio per la benedizione delle case, le unzioni dei malati e soprattutto dei bambini, considerati prede privilegiate del demonio, visto che, contrariamente a quanto avviene nella Chiesa cattolica, il battesimo può essere impartito soltanto a fedeli che abbiano raggiunto la maggiore età. Non è chiaro se le aspersioni con l’acqua santa richieste dai fedeli durante le cerimonie collettive e quelle impartite nelle case per la disinfestazione dal maligno siano servizi che i pastori offrono a pagamento; quel che è certo però è che acqua e olii benedetti sono venduti al singolo fedele che se ne vuol portare a casa una scorta, giusto per prudenza. In molte Chiese e nei movimenti più grossi questi prodotti vengono venduti addirittura tramite siti Internet specializzati 105. Il valore, per così dire, esoterico di questi elementi è dato anche dal fatto che essi di norma non compaiono durante i riti collettivi, ma vengono utilizzati in contesti diversi, oppure di fronte a situazioni particolari in cui è necessario intervenire con strumenti più efficaci per risolvere il problema di qualche fedele in un momento particolare di difficoltà, come testimoniano i brani tratti dalle nostre osservazioni e interviste. LiviaOss3 (Chiesa Cristiana Evangelica - Parola di Fede): “Non è comparso nulla nella sala….da quello che mi è sembrato di capire sono cose “extra” che si possono richiedere online sul sito oppure chiedendo un colloquio personale con il pastore o il venerdì sera quando c’è la preghiera collettiva”. LiviaInt6, già citata a p. 37: “prendono i loro soldi dicendo loro che con le preghiere e l’olio santo non succederà nulla in strada”. SilviaInt3: “A volte pregano “forte” per invocare lo Spirito di Dio e “il sangue di Gesù” e benedire l’olio che viene messo dal pastore sulla fronte del malato spirituale o sulla zona malata del malato fisico”. EstrellaInt10: “Noi usiamo anche l’olio santo e lo spargiamo a volte in tutta la casa ed i luoghi dove lavoriamo. Facciamo digiuni e preghiere quando sentiamo che siamo turbati”. EstrellaInt6: “Noi chiediamo al pastore di ungere la nostra casa con olio, lo possiamo fare anche noi. In chiesa ci benedicono sempre, anche noi possiamo benedire gli altri e lo facciamo in preghiera”. 105. Si veda ad esempio il sito www.evangelo.org. 91 EstrellaOss1: “L’olio “santo” lo usa il pastore per dare le benedizioni alle persone che lo richiedono, anche a coloro che stanno partendo o sono ammalati”. Per quanto riguarda le azioni e le dinamiche del rito, abbiamo già visto molti degli aspetti interessanti commentando i must individuati da LANTERNARI, ma credo che almeno un altro paio di aspetti meritino di essere sottolineati qui. Il primo, sentito come fondamentale praticamente da tutte le persone intervistate e sperimentato di persona dalle nostre volontarie durante le osservazioni dei culti ai quali hanno avuto accesso, è l’accoglienza dei fedeli all’inizio della celebrazione, affidata il più delle volte a personale specifico, ma spesso anche semplicemente al pastore o ai diaconi. EstrellaOss1 (Chiesa Evangelica - Seriate): “Alla porta ci sono persone che accolgono chi arriva e lo aiutano a trovare posto, con modalità estremamente affabili”. EstrellaOss2 (Chiesa Evangelica Cristiana - Porta Nuova): “Le persone sono accolte dalla moglie del pastore o da un altro membro, che con molta gentilezza accoglie chi entra e l’invita a prendere posto”. LiviaOss1 (Chiesa Bethel - Lecco): “C’è una persona dello staff del pastore che controlla l’ingresso delle persone”. SilviaOss1 (Family Prayer Fellowship - Bergamo via Corridoni): “All’entrata si viene accolti da una fedele che dà il benvenuto e stringe la mano e porta una fascia con la scritta “usher” (usciere, colui che introduce)”. Il sentirsi accolti, introdotti in una comunità come membri desiderati e non come spettatori occasionali, come potrebbe essere il caso per chi entrasse per la prima volta in una delle nostre parrocchie, come vedremo in dettaglio nel prossimo capitolo, è una questione fondamentale per persone che, al di fuori dell’ambito religioso, vivono il più delle volte nella marginalità, in un paese che, se anche non le rifiuta apertamente, molto spesso le sopporta storcendo il naso. Un altro elemento importante per il successo del pastore, al di là della sua teatralità e della sua capacità di catturare i fedeli con un uso saggio del tono e della prosodia della voce, è la scelta delle parole e degli esempi giusti nel corso del sermone. In almeno una delle testimonianze che abbiamo raccolto durante le nostre interviste è risultato chiaro che il fascino esercitato dal pastore sul suo pubblico è tanto più grande quanto più le persone si sentono “toccate” o “coinvolte” direttamente dal racconto e dagli esempi che egli fa 92 predicando. Proprio rispondendo alle “regole” della trasmissione orale del sapere, che non rispondono ad una logica definitoria, bensì narrativa del pensiero, la chiave vincente è l’uso di parabole, di storie esemplari, di casi concreti, magari anche inventati, ma verosimili, che parlino non solo alla mente dei presenti, ma anche alla loro esperienza diretta e, per così dire, “sensoriale” e intima. Così infatti si esprime B. B. boliviana: “Il pastore ha predicato e credo che nella predica si riferiva a noi due, ha elencato tutto quello che avevamo fatto. È stato terribile, ho pianto tantissimo, ma dopo per un poco di tempo non sono più tornata. Ma vedendo che il mio amico stava peggio l’ho riaccompagnato, questa volta sono rimasta io, abbiamo fatto il giro di tutte le chiese ed ho trovato questa, e mi sono fatta battezzare” 106. Senza dilungarci troppo sul valore aggregativo e coinvolgente del canto e della danza, che caratterizzano tutti i culti dei quali ci stiamo occupando, resta infine un ultimo elemento che va evidenziato e che per molti fedeli fa la differenza tra il pastore e il prete cattolico: l’uso, a fini protettivi, della benedizione e dell’imposizione delle mani, praticata sotto gli occhi di tutti durante i riti collettivi nei momenti più intensi di esaltazione mistica e condivisione emotiva del gruppo. L’imposizione delle mani tuttavia è qualcosa che, pur avvenendo alla presenza di tutta l’assemblea, viene praticata solo su una parte dei fedeli, di norma quella parte che lo richiede per motivi particolari e non si sa se questa “prestazione del pastore” venga ricompensata, ovviamente tramite l’elemosina, o meno. In un caso (LiviaOss2) essa avviene di fatto proprio durante il momento della colletta. Di seguito riporto le descrizioni di ciò che abbiamo potuto constatare di persona. EstrellaOss2 (Chiesa Evangelica Cristian - Porta Nuova): “Il celebrante impone le mani quando qualcuno lo richiede o sta partendo per il paese d’origine”. EstrellaOss4 (Chiesa Evangelica - Seriate): “Il pastore che ha fatto la predica sull’amore, invita le persone che vogliono avvicinarsi di più a Dio con Amore. Le persone che vogliono ricevere nel loro cuore l’amore di Dio, che tutto può. Fa un invito a chi desidera diventare un “seguace” dell’amore, ecc. Si alzano in molti e si avvicinano all’altare. Qui i pastori impongono le mani e pregano per ognuno di loro individualmente”. 106. EstrellaInt6. 93 EstrellaOss5 (Chiesa Evangelica Pentecostale - Ospedale): “Nel momento del saluto, il pastore impone le mani alle persone che lo richiedono. Per qualche momento qualcuno rimane in ginocchio e prega a bassa voce”. LiviaOss1 (Chiesa Evangelica Francofona Bethel - Lecco): “Dopo il discorso, c’è solamente l’imposizione delle mani sul capo da parte del pastore Mao a coloro che richiedono una particolare benedizione.” LiviaOss2 (Ministère de la Grace et de la Délivrance - Lecco): “Il celebrante ha messo le mani sul capo delle persone in segno di benedizione solamente durante la fase dell’elemosina: a tutti coloro che si sono avvicinati per dare il contributo ha messo le mani sul capo benedicendoli”. Solo una riflessione per chiudere questo capitolo. Si è trattato qui di delineare tutti gli elementi che secondo noi possono determinare nell’immigrato la scelta di aderire ad un movimento sincretico piuttosto che inserirsi nella parrocchia in cui egli si trasferisce. Si è visto che di fatto ciò che risulta determinante è il senso del rapporto diretto con Dio, che, se sano, garantisce equilibrio e salute fisica e morale alla persona. Si è insistito poi sul ruolo del pastore, di mediatore e garante di tale equilibrio, il quale opera attraverso i riti di liberazione e protezione degli ambienti e delle persone. Tutte cose che abbiamo fatto risalire ad un sostrato culturale atavico e proveniente dalle religioni tradizionali, ma forse sarebbe bene tener conto del fatto che questi sono esattamente gli elementi che anche molti cattolici (o ex-cattolici) vanno oggi cercando nelle esperienze mistiche alternative. Le scelte che si presentano oggi agli italiani che intraprendono questo percorso spirituale sono sostanzialmente tre: 1) restare in seno alla Chiesa cattolica, rivolgendosi però a gruppi specifici, ritenuti più spirituali e più radicali nel loro impegno alla preghiera e alla vita evangelica, come quelli del Rinnovamento Carismatico dello Spirito; 2) abbandonare la Chiesa cattolica, legandosi a forme di religiosità intimistica, molto spesso però ancora radicate nel messaggio cristiano, anche se aperte ad influenze esterne, soprattutto orientali, come i movimenti new-age (ad esempio gli Hare Krishna); 3) convertirsi direttamente ad un’altra religione storica (soprattutto ad una di quelle orientali - islam o buddismo in primo luogo) caratterizzata da un forte coté meditativo e cominciare a frequentare ad esempio una comunità sufi, oppure uno dei vari templi buddisti che ormai si trovano in molte regioni del nostro paese. 94 IV. QUESTIONI DI IDENTITÀ, OVVERO L’IMPORTANZA DELL’INCLUSIONE. Arriviamo ora ad uno dei punti principali di tutta la questione, che, proprio perché fondante, richiede a mio avviso una riflessione e uno spazio specifici: l’elemento identitario. Per identità non s’intende qui un mero fatto burocratico che si possa fissare su un documento tramite un’etichetta (italiano, ivoriano, boliviano ecc.), bensì un fenomeno complesso, che come tale va considerato se si vuole veramente concentrare l’attenzione sull’essere umano che ne è portatore piuttosto che sul pezzo di carta in cui compare il suo nome accanto ad un luogo e ad una data di nascita. Così è evidente che si può essere profondamente italiani pur essendo nati in Belgio da migranti italiani, oppure sentirsi americani pur essendo nati in Sicilia da genitori emigrati negli Stati Uniti poco dopo la nostra nascita. L’identità è data non solo dal luogo in cui nasciamo, ma anche dalle complesse dinamiche adattive e formative che ci derivano in parti diverse dall’educazione che riceviamo, dal contesto in cui viviamo, dalle relazioni che intessiamo, dalla lingua che parliamo e da quelle che conosciamo, dalle abitudini alimentari che abbiamo, dall’abbigliamento che ci contraddistingue, dalla religione che pratichiamo e dal nostro modo di fare le cose, dalla nostra idea e pratica di famiglia, dal sistema di valori e di credenze che condividiamo con il nostro gruppo, ma anche dalle reazioni che la gente ha nei nostri confronti quando ci incontra per la strada in base al nostro aspetto e al colore della nostra pelle, dalla storia che il nostro gruppo (se ne abbiamo uno) si porta dietro e ovviamente dalla nostra personale capacità di affrontare pregiudizi e preconcetti 95 che, in quanto portatori di un’identità etnica x o y, forzatamente ci caratterizzano (del tipo: italiani = spaghetti, mafia e mandolino). L’identità è dunque un fenomeno complesso, perché non può essere circoscritta entro confini invalicabili e, pur essendo costruita su un nocciolo duro riconducibile ad un habitus e ad un ambiente etno-linguistico e culturale specifici; il suo aspetto concreto è evanescente ed impossibile da descrivere. Visibilissima da lontano, l’identità, più ci si avvicina, più si distorce diventando irriconoscibile. All’interno di questo universo multiforme dell’identità, uno dei fattori più facilmente individuabili e più probabilmente cari al suo portatore è la lingua. Tutti noi, anche i più portati al poliglottismo, sappiamo bene che, per quanto si possano apprendere senza fatica una, due o più lingue straniere, resta innegabile, salvo rari casi, spesso legati a specifiche ideologie, che la lingua preferita, quella che più ci fa sentire a nostro agio e nella quale riusciamo ad esprimere veramente tutto quello che desideriamo, anche in riferimento ai sentimenti che proviamo, è la lingua parlata nell’ambiente in cui siamo cresciuti, quella che usavano con noi le persone che ci hanno educati, quella che abbiamo in qualche modo assorbito con il latte materno, in una parola la nostra madrelingua. In una situazione come quella del migrante che, insieme agli affetti, ai sapori e ai colori della propria terra, si è lasciato alle spalle anche la propria lingua, è chiaro che ogni occasione d’incontrarsi con un gruppo di persone che condivide con lui questa nostalgia, diventa preziosa. Proprio la lingua si trasforma così in un richiamo irresistibile che promette l’opportunità di trascorrere del tempo in una specie di limbo, in cui il parlare non è più semplice comunicazione, ma anche ricordo, conforto, consolazione e sollievo in una realtà fatta talvolta (troppe volte) di esclusione ed emarginazione. Questo emerge molto chiaramente dalle interviste che abbiamo realizzato. Infatti, su 24 incontri avvenuti, soltanto in 5 casi non è stata sollevata la questione della lingua parlata durante il culto, ma è significativo che tutte le interviste siano state condotte nella lingua del nostro interlocutore, quando necessario con un interprete, e non in italiano, e nel corso delle 11 osservazioni di riti che abbiamo potuto fare, solo in un caso la lingua usata durante il culto è risultata essere l’italiano. In EstrellaInt5, Ana, boliviana, dice infatti, riguardo alla Chiesa Evangelica di Seriate: “In questa chiesa siamo di tantissime nazionalità come hai visto, però il pastore è italiano e parla sempre in italiano, perché così capiscono tutti. Ci sono persone che vengono dall’India, dalla Cina, dall’America Latina, dal Marocco, dal Senegal, ecc.”. 96 Riguardo alla Église Évangelique-Prophétique de la Revelation di Dalmine, frequentata per la maggioranza da persone di origine africana francofona, Dago, congolese, dice che: “Non è una chiesa per soli stranieri: ci sono persone della Costa d’Avorio, italiani (...). Si parla in francese e c’è il traduttore italiano”107. In altre due comunità africane anglofone, The Lord Exalted Ministries e The Divine Assurance Ministries invece, risulta che le letture e il sermone siano di norma fatti in inglese e vengano poi tradotti in italiano solo a beneficio degli eventuali “stranieri” (nella maggioranza dei casi italiani) presenti in sala. Se dovessimo riassumere al massimo i risultati ottenuti su questo tema, basterebbe dunque dire che in linea di principio nel momento del culto i migranti latinos usano lo spagnolo, gli africani francofoni il francese e gli africani anglofoni l’inglese, ovviamente del tipo parlato in Africa e con forti influenze dalle lingue locali. Significativa da questo punto di vista è l’impressione di una delle nostre volontarie riguardo all’inglese parlato nella chiesa Family Prayer Fellowship di via Corridoni: “La lingua usata è l’inglese, anche se è un inglese molto dialettale (per me per lo più incomprensibile)”108. Tuttavia, analizzando in dettaglio interviste e osservazioni, altri piccoli elementi interessanti mi sono sembrati significativi e per questo li riporto qui di seguito. La Chiesa Evangelica Pentecostale che si trova vicino all’Ospedale Maggiore di Bergamo e che è frequentata esclusivamente da latinos, ad esempio, rappresenta un’eccezione unica, poiché è l’unica nella quale al posto dello spagnolo si usa il castellano e nella quale, durante l’osservazione, sono stati notati scambi tra donne in lingua quechua. EstrellaOss5: “La lingua della celebrazione è il castellano. Al mio arrivo alcune donne nell’ingresso parlavano in lingua originaria: il quechua. Poi vedendomi arrivare hanno cambiato al castellano”. Nella Chiesa Pentecostale Ghanese e in generale nelle chiese frequentate da nigeriani, sebbene la lingua ufficiale del culto sia l’inglese, spesso le persone dell’assemblea che intervengono per le preghiere e le testimonianze parlano nelle proprie lingue materne (il Twi probabilmente nel caso ghanese e qualche forma di Yoruba nel caso nigeriano - non ne abbiamo registrazioni, dunque è difficile dire, ma il fatto resta impor107. LiviaInt3. 108. SilviaOss1. 97 tante in sé). Così infatti risulta in LiviaInt6: “Spesso nelle chiese di nigeriani si utilizza anche il dialetto regionale” e in LiviaOss5 - Chiesa Pentecostale Ghanese: “Si alza una donna (che non è la diaconessa) va al leggio e inizia a leggere un brano dalla Bibbia in inglese. Finita la lettura la donna spiega la lettura in inglese mischiato al dialetto ghanese (nel frattempo un ragazzo mi traduce in italiano quello che dice)”. Eccezionale ed estremamente significativo è anche il caso della Chiesa Evangelica d’Etiopia, riguardo alla quale il pastore Samuel, intervistato da Silvia (SilviaInt2), ci ha detto: “All’inizio partecipavano solo in tre o quattro etiopi 109, poi quando sono diventati un gruppo considerevole fra etiopi ed eritrei hanno deciso di ritrovarsi separatamente per poter pregare e celebrare nella loro lingua, l’amharico”. Il problema della lingua, lungi dall’essere un elemento di attrazione inconscio, è anche molto spesso manifestato apertamente dalle persone, che lo vedono come uno dei fattori principali per la scelta di frequentare movimenti alternativi piuttosto che la Chiesa cattolica, la quale, almeno sul territorio di Bergamo, offre poche occasioni di incontro e preghiera in una lingua diversa dall’italiano 110. Questa, ad esempio, è la testimonianza di M. A., un pastore latinoamericano: “I linguaggi soprattutto. La lingua è molto importante. Se uno parla nella propria lingua riesce a capirsi meglio. Ho fatto parte di una Chiesa Evangelica che parlavano solo italiano. Ho sofferto molto. Poi sono riuscito a formare un gruppo di latinoamericani, nel quale potevano lodare e fare il culto 109. Al culto della chiesa delle Assemblee di Dio in Italia in via San Bernardino ndr. Brano già citato a p. 82. 110. Per i fedeli di lingua spagnola c’è la missione con cura d’anime “Santa Rosa da Lima” in via San Lazzaro 18, per i fedeli di lingua francese la Chiesa di San Giuseppe in via G. Marconi 90 a Seriate e per i fedeli di lingua inglese la Chiesa del Patronato San Vincenzo in via Gavazzeni 3 a Bergamo. Per i cattolici filippini ci sono celebrazioni in lingua presso la Chiesa di San Giorgio, in via San Giorgio 1, per cingalesi e srilankesi presso la Chiesa S. Maria Madre della Chiesa alla Dorotina di Mozzo, via Silvio Pellico 5, mentre per gli srilankesi tamil presso la Chiesa di San Rocco in Piazza Martiri 7 a Terno d’Isola. I fedeli ortodossi di lingua russa si ritrovano invece alla Chiesa dell’Oratorio di Sant’Anna in via Borgo palazzo 45, metre quelli di lingua rumena possono rivolgersi alla Chiesa di Santa Maria Immacolata e Sant’Antonio di Padova in via Longuelo 39 o alla parrocchia romeno-ortodossa “San Gerarca Andrei Saguna” in via Dante Alighieri 190 a Romano di Lombardia. I copti hanno il loro luogo di ritrovo presso la Chiesa della Madonna di Lourdes in via San Tomaso de Calvi 26 e i copti etiopi presso le Figlie del Sacro Cuore in via Ghirardelli 9. Per finire gli eritrei di rito geez si ritrovano in via Masone 20/a presso l’Istituto delle Suore Orsoline di Gandino, mentre gli ucraini di rito bizantino greco-cattolico presso la Chiesa di San Bernardino in via San Bernardino 42. 98 in spagnolo” 111. Sempre un pastore, Adji, della Chiesa Bethel di Lecco dice: “La nostra accoglienza è diversa da quella cattolica. Qui parliamo la loro lingua e abbiamo la stessa cultura. Succede che arrivino cattolici e diventino evangelici. È un problema di calore: uno che parte dalla Costa d’Avorio qui non ha nessuno. Dov’è che si può fare sentire ed esprimersi, fare delle domande. Anche se è cattolico viene qua: non può andare alla Chiesa cattolica perché si parla italiano. Anche se non è evangelista, anche se all’inizio odiava gli evangelisti, per il fatto di essere solo qui si sposta per forza. Qui viene, trova amici, calore, il sistema ivoriano e si trova a suo agio. Cerca i suoi simili.” 112. Questo invece è il suggerimento accorato di Jessica, nigeriana: “fare almeno una messa alla settimana in inglese potrebbe aiutare molto queste persone a fidarsi e ad andare alla Chiesa cattolica. Basterebbe anche uno che traduce dall’italiano all’inglese… ma è difficile trovare un prete che sa l’inglese. Ci vorrebbe un traduttore” 113. I gruppi che si ritrovano in base alla lingua e alla macroarea geografica e culturale di provenienza (America Latina, Africa francofona e Africa anglofona) sono costituiti in media da poche decine di persone, mentre le comunità più grandi, che arrivano ad avere anche oltre un centinaio di fedeli perdono l’elemento lingua come fattore identitario primario, e dunque le celebrazioni si svolgono in lingua italiana, oppure in spagnolo, inglese o francese, con l’ausilio di un interprete che traduce tutto in italiano a beneficio di chi ha un’origine diversa. In questi casi il fatto stesso di essere migranti, di vivere una condizione di marginalità o comunque di lontananza dalla terra d’origine, di cercare la protezione e la benedizione divina per raggiungere un benessere sociale e materiale che consenta loro di essere giustificati e compresi dalle proprie famiglie rimaste in patria, diventa il collante principale. Allo stesso tempo, all’interno di questi circuiti in cui l’essere migrante straniero in terra straniera è il denominatore comune, la solidarietà valica spesso i confini etno-linguistici e culturali (e in alcuni casi anche religiosi) e si estende a tutti coloro che condividono la medesima esperienza. Questa è ad esempio la testimonianza di S. R., boliviana di 38 anni, per la quale la solidarietà tra stranieri è talmente importante che cita alla 111. EstrellaInt3. 112. LiviaInt2. 113. LiviaInt6. 99 pari, tra le sue amicizie, una donna boliviana come lei e una donna marocchina, che giudica in maniera estremamente positiva nonostante provenga da un altro mondo e pratichi una religione diversa dalla sua: “Tra i boliviani, tra i latinoamericani e tra gli stranieri in generale, c’è solidarietà. Qualche volta abbiamo fatto scambio di vestiti, di oggetti che sono ancora in funzionamento. (...) Ad esempio, c’era una signora che veniva ad aiutarmi con i miei piccoli, le davo qualcosa e oggetti, lei che era insegnante nel nostro paese, si sentiva bene ed era molto grata di tutto l’aiuto che le davo. Adesso se n’è andata insieme ai suoi famigliari. Perché? Ha detto che non ha trovato solidarietà oltre a noi e poche persone … Ma ho conosciuto una famiglia marocchina (...). Con questa famiglia abbiamo condiviso momenti di grande necessità, lei era molto in gamba, aperta, creativa, ed aveva una grandissima volontà per aiutare chi era in difficoltà. Anche se era di una religione diversa dalla mia, ho imparato molto da lei. Se c’era un problema pensava a come poteva superarlo, non si metteva a piangere come fanno molte donne latinoamericane, che sono troppo sentimentali … a volte poco sveglie” 114. Mi pare invece estremamente significativo che a S.R. non sia invece mai capitato di ricevere solidarietà e aiuto da una donna italiana, anche se cristiana come lei. Nel frattempo un’altra donna boliviana, Ana, ci conferma la stessa cosa: “Certo che ci aiutiamo, con quello che abbiamo. Credo di sì, siamo solidali. Ma non solo tra gli evangelici, ma tra tutti noi stranieri. A me hanno aiutato molto, non i miei parenti, ma gente che conoscevo anche poco” 115. Un caso molto particolare è quello di Samuel, nigeriano, che pur dichiarandosi cattolico, dice di frequentare le chiese pentecostali esclusivamente per solidarietà nei confronti dei suoi connazionali: “Io sono battezzato cattolico per cui io tale rimango e non cambio. Frequento le chiese protestanti perché lì ci sono tanti miei connazionali che io voglio aiutare visto che sono qui da tanto tempo” 116. La comunanza identitaria e la solidarietà tra connazionali è talmente forte che, stando a molte delle nostre interviste, persone partite dal paese d’origine professando la fede cattolica, arrivate in Italia, ammettono di aver cominciato a frequentare i movimenti cristiani alternativi sol114. EstrellaInt1. 115. EstrellaInt5. 116. LiviaInt7. 100 tanto per seguire gli amici o i conoscenti che costituivano la prima e forse l’unica rete assistenziale che avevano in un territorio e in una società per loro nuova. Questo è ad esempio il caso di Tunde, nigeriano, che, come riporta Silvia 117 nel resoconto della sua intervista: “Quando il padre è venuto in Italia per motivi di lavoro cinque anni prima del resto della famiglia, a causa di difficoltà di tipo linguistico non è più andato in chiese cattoliche, ma, invitato da un amico connazionale, dal 2001 ha iniziato a frequentare una Chiesa Evangelica africana vicina alla sua abitazione (a quell’epoca abitava a Brescia)”. Carlos, boliviano, racconta invece: “All’inizio non avendo il permesso di soggiorno, abitavamo insieme a questi altri ragazzi boliviani che erano evangelici. Noi siamo cattolici, ma tramite questi inquilini che ci ospitavano abbiamo iniziato a frequentare la Chiesa Evangelica” 118. L’unica persona che ci parla di un percorso di ricerca spirituale è Kevin, uno dei nostri mediatori, che è nato in una famiglia cattolica in Nigeria, ma che poi, nel suo girovagare per il mondo, ha seguito molte correnti diverse e fatto numerose esperienze di altro tipo. Questo è il resoconto di ciò che ci ha raccontato: “(Kevin) È nato in una famiglia cristiana cattolica e cresciuto in un villaggio vicino a Lagos con degli zii anch’essi cristiani cattolici. (...) All’interno della stessa Chiesa cattolica locale vi era però un movimento di tipo pentecostale a cui partecipava. (...) ad un certo punto in Nigeria sono arrivati in grande quantità i Testimoni di Geova e contemporaneamente gruppi pentecostali che facevano capo ad una certa “Celestial Church” che diversi suoi amici frequentavano. Quest’ultima è una chiesa più simile a una chiesa spirituale africana (dove si pratica una religione naturale e riti vodún) e legata più al Vecchio Testamento. Kevin non è contrario all’uso di riti di tipo vodún, purché l’intenzione sia quella di fare del bene. In Italia Kevin ha frequentato diverse chiese sia cattoliche che evangeliche (...). Dopo essere arrivato a Bergamo ha iniziato a frequentare diverse chiese pentecostali soprattutto di africani, ma è entrato anche in chiese cattoliche. (...) non va alla ricerca di un gruppo di connazionali, ma di una proposta spirituale che ritrova più nelle chiese pentecostali che in quelle cattoliche. Per lui è del tutto normale entrare in una chiesa cattolica, dato che è nato in una famiglia cattolica, e allo stesso tempo è naturale en117. SilviaInt4. 118. LiviaInt5. 101 trare anche in una Chiesa Evangelica dove ritrova maggiori risposte alle sua esigenze spirituali”. Anche in questo caso però, sebbene la ricerca sia di tipo dichiaratamente spirituale, la scelta alla fin fine è dettata dal disagio sociale della persona, che ha bisogno di condividerlo con qualcuno, e ricade di fatto sulle chiese pentecostali perché lì, come ammette lo stesso Kevin in un passaggio successivo: “si lascia più spazio alla preghiera e alla riflessione e questa spesso è centrata sulle situazioni particolari che si trovano a vivere in quanto emigrati e in quanto nigeriani” 119. Tutto questo emerge dalle nostre interviste e osservazioni dirette, ma credo si debba fare un ulteriore passo avanti per capire meglio la questione. Fino ad ora ci siamo concentrati sulla questione dell’identità e sul bisogno dei migranti di ricrearsi un gruppo, una comunità solidale, possibilmente costituita da persone che, data una provenienza simile dal punto di vista geografico, linguistico e culturale, si considerano in qualche modo fratelli, amici, famigliari e questo è comprensibile e tutto sommato ovvio. C’è però un altro fattore, altrettanto comprensibile e altrettanto ovvio, che non abbiamo ancora considerato e cioè la questione del ruolo. Ognuno di noi, per sentirsi in pace con se stesso e con la società in cui vive, ha bisogno di trovare un posto adatto a sé, un impegno, un lavoro, o più in generale una posizione che lo faccia sentire non dico importante, ma quanto meno utile, parte di qualcosa di grande, ingranaggio di un meccanismo cosmico che serve per far girare il mondo nel modo giusto. Spesso chi emigra lontano dalla propria terra e si ritrova in un universo culturale e sociale diverso da quello al quale era abituato, soffre proprio per la mancanza di un tale ruolo, di quel qualcosa che lo legittima a stare in una determinata compagnia insieme a determinate persone, e questo diventa tanto più vero, quanto più il migrante vive in una condizione di emarginazione, senza lavoro, o con un lavoro più modesto rispetto a quello che sperava di trovare, senza famiglia, con pochi, fragili affetti, appena conosciuti e con il cuore gonfio di nostalgia per tutti i legami che si è lasciato alle spalle al momento della partenza. Ebbene, anche da questo punto di vista, la struttura delle chiese neopentecostali, evangeliche e carismatiche è spesso in grado di offrire ai suoi fedeli una risposta concreta ed un approdo felice. 119. SilviaInt1. 102 Essa infatti, nelle sue pratiche di culto, prevede un ruolo per ciascuno dei partecipanti e nessuno rischia di sentirsi escluso. Durante il rito sono addirittura previsti momenti di svago e formazione per i bambini, in modo che non disturbino lo svolgimento della liturgia, e per coloro che ancora non hanno ricevuto il sacramento del battesimo, pur essendo quasi maggiorenni, o addirittura già adulti, sono previsti riti di protezione particolari da parte della comunità che, pregando su di essi, in pratica, simbolicamente li abbraccia e li custodisce come già parte della famiglia. Così ci descrive ad esempio Estrella una celebrazione tipo, alla quale ha assistito presso la Chiesa Evangelica Cristiana di Porta Nuova: “La disposizione - all’interno della sala ndr - dipende dall’incarico che hanno le persone – dunque quasi tutti si suppone abbiano un ruolo specifico ndr –, le sorelle che cantano stanno davanti, come i giovani che suonano gli strumenti. Ci sono molte famiglie: marito, moglie e bambini. I bambini, al momento del sermone, vengono affidati alle cure di una o più persone che svolgono delle attività con loro nella cucina” 120. La stessa cosa avviene in una delle chiese africane francofone (la chiesa cristiana evangelica Parola di Fede di Lecco): “ci sono dei posti riservati ai bambini dai 3 ai 10 anni che prima del momento della predica vengono portati nella stanza adibita per la scuola della parola” 121. I pastori sono ben consapevoli della necessità dei loro fedeli di sentirsi parte e strumento di qualcosa di più grande. A questo proposito il pastore M. A. ad esempio dice che, all’interno della sua chiesa: “come in qualsiasi famiglia è necessario dividersi dei compiti, dare delle responsabilità a seconda delle capacità e del tempo dei fratelli e delle sorelle, o sostenere chi si trova in grave difficoltà” 122, mentre il pastore Adji sostiene: “Noi conosciamo i nomi di ciascun membro della chiesa e li facciamo sentire accolti e importanti. Ognuno ha un ruolo all’interno della cerimonia” 123. Idealmente dunque, in ognuna di queste chiese c’è posto per tutti e ciascuno può contribuire al rito o al buon funzionamento della comunità secondo le proprie capacità e caratteristiche. Oltre al pastore e ai suoi diaconi o diaconesse, ci sono i coristi e i musicisti (spesso numerosissi120. 121. 122. 123. EstrellaOss2. LiviaOss3. EstrellaInt3. LiviaInt2. 103 mi), c’è il capo del coro e tutti i partecipanti all’assemblea si uniscono ai canti e alle danze e rispondono insieme alle sollecitazioni del diacono, contribuendo a rendere più forte la preghiera. Durante il rito ognuno può prendere la parola, per condividere con la comunità le proprie frustrazioni e chiedere aiuto e sostegno nella preghiera, oppure può farlo per dare testimonianza di un evento miracoloso che rappresenti il segno evidente della presenza di Dio nella propria vita, o ancora per commentare le letture del giorno o chiedere consiglio al pastore. Nella pratica della preghiera il fedele è allo stesso tempo paziente e guaritore e sente da un lato di beneficiare spiritualmente delle preghiera altrui, e di contribuire alla salute dei fratelli tramite la propria. Come dice Tina, nigeriana: “le celebrazioni durano tanto. Anche tre ore, perché dipende... ognuno può dire quello di cui ha bisogno e poi si prega per tutti” 124. Contribuendo alle collette della chiesa e versando spesso una vera e propria decima del proprio stipendio, ciascuno poi si sente non solo partecipe di un rito, ma anche protagonista della costruzione di un mondo nuovo. Significativo rispetto a questo è quanto emerge dal resoconto dell’intervista a Margaret, nigeriana: “Lei ed alcuni del suo gruppo (...) quasi tutte le sere pregano da mezzanotte alla 1.30 in collegamento telefonico con il pastore che dà un tema di riflessione ogni giorno. Uno dei temi ricorrenti è quello della speranza che il domani sia meglio dell’oggi” 125. Poi ci sono quelli che si offrono per la catechesi e le riunioni di preghiera, per sostenere i fratelli in difficoltà. Infine le donne che preparano piatti prelibati o lavoretti artigianali per condividere un momento di unità alla fine del rito, oppure per raccogliere ancora qualche soldo per i bisogni della chiesa, mentre gli uomini possono garantire del tempo per provvedere ad eventuali lavori di cui lo stabile in cui la comunità si ritrova ha bisogno. Così ciascuno, nel proprio piccolo, si sente gratificato e la sua visione del mondo diventa un po’ più rosea. Molto bella e molto dolce è la testimonianza di B.B., boliviana: “Ad esempio io andavo cantando nei Karaoke, adesso posso cantare le lodi al Signore nella chiesa e mi sento così felice e contenta” 126. 124. IlariaInt1. 125. SilviaInt3. 126. EstrellaInt6. 104 Riassumendo, quando si parla di identità di una persona, di un migrante, come nel caso nostro, considerarne solo la dimensione etno-linguistica e culturale non basta. Cruciale deve essere la dimensione della realizzazione personale, della valorizzazione del singolo all’interno di un gruppo di cui si riconosce parte ed elemento costruttivo, portatore di valore, al pari di tutti gli altri, siano essi della stessa nazionalità, o meno. Senza questo passaggio si rischia di rimanere sempre, ahimè, nella dimensione del ghetto. Per concludere credo sia opportuno considerare ancora due elementi: quello delle seconde generazioni e quello della questione femminile. Che cosa succede dunque nel contesto delle seconde generazioni? Gli stessi problemi di integrazione sono sentiti e vissuti anche dai figli piccoli o adolescenti dei nostri immigrati? L’atteggiamento dei cattolici nei loro confronti è altrettanto freddo quanto quello che dimostrano verso i loro genitori? Da quanto emerge dai nostri incontri, per fortuna, la situazione appare in questo caso molto più rosea e l’integrazione dei bambini nel nostro tessuto sociale e parrocchiale decisamente migliore rispetto a quanto ci saremmo potuti aspettare basandoci soltanto sulle esperienze dei loro genitori. Nella maggior parte dei casi infatti i figli degli immigrati che frequentano i movimenti cristiani alternativi non solo frequentano le ore di religione a scuola, ma spesso sono iscritti a scuole cattoliche, che in alcuni casi sono le uniche a disposizione sul territorio, soprattutto se materne, e sono inseriti nelle attività pomeridiane e sportive degli oratori delle parrocchie in cui risiedono. D.B., una ragazzina boliviana di 13 anni, racconta ad Estrella che: “Noi siamo stati sempre evangelici, sono andata nella Chiesa cattolica poche volte. Ma a scuola ho fatto religione” e quando Estrella le chiede perché abbia scelto di seguire le ore di religione, nonostante non sia cattolica, D.B.: le risponde: “Perché era meglio così, altrimenti dovevo fare altre attività, e non mi andava”. Estrella allora le chiede se frequenta anche altre attività promosse dai cattolici e la bambina risponde: “Frequento un centro per fare i compiti che è della parrocchia. Qualche volta partecipo alle feste con i miei genitori. Poi, tutte le domeniche siamo qui” 127. 127. EstrellaInt2. 105 Interessante a questo proposito è la posizione di alcuni dei pastori che abbiamo incontrato, i quali considerano positivamente il fatto che i figli dei loro fedeli, o i loro stessi figli, abbiano contatti anche con i bambini cattolici in contesti cattolici, perché questo è fondamentale per la loro integrazione. Il pastore Adji, della Chiesa Bethel di Lecco, sostiene che: “L’integrazione è importante. Devono andare a scuola con tutti gli altri delle altre religioni: cattolici, musulmani, buddisti ecc.” 128, e anche Salomon, pastore della Chiesa Evangelica d’Etiopia, dice che “i suoi figli più grandi frequentano l’oratorio (giocano a calcio) e i più piccoli frequentano la scuola materna parrocchiale gestita dalle suore: lui e sua moglie hanno partecipato a momenti di preghiera e di formazione per genitori organizzati dalla materna” 129. Per quanto riguarda invece la questione femminile, va detto che in tutti i movimenti cristiani alternativi che abbiamo incontrato le donne ricoprono spesso ruoli e posizioni di rilievo ai quali difficilmente possono ambire al di fuori della comunità religiosa che frequentano. Come si è visto, soprattutto nelle chiese africane, non è raro che i leader siano donne (si veda ad esempio la Chiesa Pentecostale Ghanese - LivaOss5) e spesso anche i missionari che arrivano da oltre oceano per animare le comunità degli immigrati, sono figure femminili il cui carisma è capace di richiamare folle enormi (SilviaOss1). Anche nel caso in cui il leader sia un uomo, a dirigere le preghiere collettive o il coro, si trovano un po’ ovunque donne capaci di coinvolgere l’assemblea in un crescendo di emotività, e sempre alle donne è spesso affidato il compito di accogliere alle funzioni i fedeli che si presentano per la prima volta. Per capire il valore che questo atteggiamento verso l’universo femminile rappresenta per le donne che frequentano i movimenti cristiani alternativi bisogna di nuovo allargare lo sguardo e capire qual è la loro condizione di partenza. A parte infatti quelle (poche) donne che hanno intrapreso il percorso migratorio da sole, partendo da un contesto familiare cittadino e moderno, che già in patria lasciava loro ampi spazi, nella maggioranza dei casi si tratta di persone che hanno sempre vissuto in un ambiente governato da figure maschili, in cui esse non hanno mai avuto la possibilità di esprimersi e di scegliere per se stesse, passando quasi senza soluzione di 128. LiviaInt2. 129. SilviaInt2. 106 continuità dalla tutela del padre a quella del marito, o peggio, a quella della maman o del protettore, se vittime di tratta. Per questo motivo dunque, e per sentirsi libere di potersi esprimere come persone che valgono tanto quanto gli uomini, molte donne immigrate preferiscono aderire ai movimenti alternativi, piuttosto che rientrare nei ranghi della Chiesa cattolica, nella quale, almeno all’apparenza, alla donna continua ad essere riservato un ruolo subalterno. La stessa cosa rappresentò una delle carte vincenti dei movimenti evangelici carismatici negli Stati Uniti agli inizi del ventesimo secolo, rispetto ai quali BILLINGSLEY (1968 - 2008: 160) scrive: “donne di ogni provenienza economica, razziale ed etnica dovevano affrontare ogni giorno gli abusi di padri e mariti, accompagnati da sentimenti di inadeguatezza e rifiuto. In contrasto con gli evangelici conservativi, gli evangelici carismatici offrivano al proprio pubblico la speranza di un’emancipazione economica, della cura emotiva e di un rinnovamento spirituale ed incoraggiavano l’uguaglianza tra le diverse razze e tra i due sessi e proponevano alle donne e agli afroamericani nuovi modelli da seguire”. 107 V. MIGRANTI, NUOVE CHIESE E CHIESA CATTOLICA: LE RISERVE. Arrivati in pratica alla fine della nostra indagine, non ci resta che provare a rispondere ad un ultimo quesito: quali sono le riserve che i migranti esprimono relativamente alla Chiesa Cattolica e quali invece quelle che muovono nei confronti delle chiese alternative? Quali le caratteristiche positive delle due realtà? Prima di entrare nel merito della questione però è forse bene ricordare in sintesi quali sono i bisogni analizzati fin qui, per i quali gli immigrati cercano una risposta nella religione in generale e nei movimenti religiosi che scelgono di frequentare in particolare. In sostanza si tratta di quattro elementi fondamentali: – un bisogno profondo di sentirsi parte di un gruppo, legato alla necessità di trovare per se stessi un’identità unica, che consenta di sentirsi membri attivi di una comunità che cammini unita su un sentiero condiviso; – il bisogno di sentirsi protetti, di porre il proprio spirito nelle mani di qualcuno che ci possa tutelare dagli attacchi del Maligno (o di chi agisce per opera sua). – il bisogno di sentire la dimensione religiosa nella quotidianità e nelle scelte che la vita impone; di sentirla come una componente positiva, comunitaria e gioiosa del vivere, opposta alla tristezza e al buio interiore di chi invece vive al di fuori di essa e della necessità di vivere le cerimonie religiose come feste, con canti, danze e momenti di condivisione reali; – la necessità di sentirsi parte di una società fatta di relazioni umane che siano specchio dell’equilibrio cosmico tra il mondo naturale e 108 quello sovrannaturale, e di conseguenza improntata alla reciprocità, alla solidarietà, all’accoglienza e al mutuo soccorso, sia morale, sia materiale ed economico. Premesso che tutti questi bisogni generano nei nostri nuovi ospiti, se non vere e proprie aspettative, quanto meno precisi desiderata, non c’è da stupirsi del fatto che essi diventino il metro di misura della realtà che li circonda, o quanto meno della sua dimensione religiosa. La domanda fondamentale a questo punto è quanto e come rispettivamente la Chiesa Cattolica e i movimenti cristiani alternativi sono in grado di dare una risposta adeguata a quei desiderata. Ovviamente le persone che abbiamo intervistato hanno le idee molto chiare a questo proposito e non hanno fatto alcuna fatica a condividerle con noi. Dato il fatto che l’ambiente in cui sono state realizzate le interviste era quello dei fedeli che frequentano di massima le chiese sincretiche, l’atteggiamento più critico è stato manifestato nei confronti della Chiesa cattolica, ma non mancano affatto riserve anche sui movimenti alternativi e soprattutto sui pastori che ne sono alla guida. Per quanto riguarda la Chiesa Cattolica, gli aspetti negativi che vengono sottolineati nella maggior parte dei casi sono sostanzialmente solo due, ma pesano come macigni. Il primo riguarda la sensazione di isolamento che il migrante prova entrando nelle nostre parrocchie, dove spesso si sente emarginato e considerato con sospetto sia dagli altri fedeli, sia (e questo è ancora peggio) dal parroco. Percepisce di essere tenuto a distanza e ne soffre, dunque mai si azzarderebbe a rivolgersi ad un suo co-parrocchiano o vicino di casa italiano nei momenti di bisogno, perché si rende conto che la risposta non potrebbe che essere una porta chiusa, mentre non esita a condividere le sue ansie con chi, come lui, vive la condizione di immigrato, meglio se dalla stessa macroarea, ma spesso anche da altre parti del mondo. Eppure tutti sappiamo, o possiamo facilmente immaginare, che l’accoglienza è il presupposto minimo per cui una persona che si trovi trapiantata in un paese diverso da quello in cui è nata possa sentirsi bene. Come dice Samuel, nigeriano: “Molti hanno trovato accoglienza nelle comunità parrocchiali cattoliche italiane, altri invece sono delusi e vanno verso quelle protestanti (...) l’accoglienza e l’attenzione sono importanti (...). Sentirsi accolti fa la differenza, sia in una chiesa prote109 stante che in una chiesa cattolica. Ti fa sentire parte della Chiesa. E chi si sente parte non se ne va più e ricambia l’accoglienza e l’aiuto ricevuti” 130. Ana, boliviana, una volta cattolica e ora evangelica, dice che ha scelto di cambiare chiesa, perché c’è una differenza fondamentale tra i due modi di essere cristiani, dei fedeli e dei pastori: “La differenza è l’accoglienza, la solidarietà, la famigliarità, diciamo la confidenza che c’è tra noi. Qui i pastori ti conoscono uno ad uno, vengono a trovarti, ti stanno vicino con le preghiere, nei problemi famigliari, di salute, ed altri problemi” e aggiunge che nella Chiesa cattolica, almeno in quella che ha trovato a Bergamo: “Manca l’unità. Manca il sentirsi veramente cristiani, cantare e lodare con il cuore. Dio è “Amore” come abbiamo ascoltato oggi, l’amore è qualcosa che cambia, che ti fa sentire felice e ti senti uguale agli altri, ti senti fratello e sorella degli altri.” 131. Riguardo alla solidarietà tra i membri di uno stesso gruppo religioso, Salomon, pastore della Chiesa Evangelica d’Etiopia ci dice che i suoi fedeli: “Spesso si ritrovano anche al di fuori dei momenti di culto per momenti di convivialità e per mangiare insieme, ad esempio anche durante il periodo di festa dell’oratorio. Tra di loro c’è solidarietà e aiuto reciproco sia da un punto di vista economico che sociale e se c’è un bisogno fanno anche collette. Parecchi di coloro che fanno capo a questo gruppo, soprattutto fra gli eritrei, prima di aderire all’evangelismo erano copti. Secondo lui si sono convertiti perché nell’evangelismo trovano maggiore coerenza fra la parola di Dio e il modo di metterla in pratica nella vita quotidiana”. In questo caso è bene sottolineare che il movimento legato a Salomon in generale è molto ben integrato nel tessuto sociale della parrocchia e, forse grazie a lui, i rapporti tra la sua chiesa e la parrocchia cattolica sono improntati ad una buona cooperazione. Dal resoconto dell’intervista che Silvia gli ha fatto, sappiamo infatti che: “Da parte dei preti e delle persone di S. Anna ha trovato disponibilità e accoglienza; qualche volta si è rivolto anche al centro di primo ascolto parrocchiale per cercare aiuto per sé o per i suoi connazionali” 132. Talvolta il sentirsi escluso dalla parrocchia cattolica, per una persona fermamente solida nella sua fede, può rappresentare uno choc improvviso 130. LiviaInt7. 131. EstrellaInt5. 132. SilviaInt2. 110 e contribuire, probabilmente insieme ad altre delusioni rispetto al proprio ruolo nella società, a cadere in uno stato di depressione, dal quale si può uscire solo trovando un altro luogo in cui invece ci si sente accolti. La storia, molto triste, di Ramiro, boliviano, dovrebbe far riflettere molto bene tutti noi cattolici: “Ero cattolico, ed ho fatto anche il catechista per alcuni nella mia parrocchia (San Carlo), ho seguito i bambini tra 10 e 14 anni. Il mio “lavoro” dentro la parrocchia era diversificato, dalla catechesi, alla pulizia degli ambienti, a raccogliere fondi, animazione e tante altre cose. È stata una bella esperienza. Ma è finita. Sono migrato prima in Spagna, poi grazie ai contatti con altri parenti ed amici sono arrivato a Bergamo. Ho trovato un posto diverso da quello che mi avevano detto. Per esempio credevo che potevo fare come in Bolivia, fare il catechista o aiutare, ma non mi hanno dato l’opportunità. Come mai? Hai cercato di trovare il tuo spazio per partecipare, nella Chiesa cattolica? Al principio sì, dopo ho rinunciato, avevo poco tempo da dedicarmi al volontariato. Mi sono allontanato per comodità e per seguire altre persone, che della Chiesa non vogliono sapere niente. Ho trovato cose che non erano mie, l’alcol, il fumo, le donne, le discoteche, spendevo quello che guadagnavo con una grande facilità. La mia famiglia mi ha sempre richiamato, ho alcuni parenti qui. Ma non mi importava niente. Ero come drogato, secondo alcuni ero felice. In realtà avevo addormentato la mia “anima”, che poverina era tutta sofferente. Un giorno mi hanno accompagnato qui133 e qui mi sono fermato”134. In alcuni casi è determinante per la scelta del singolo, l’esempio di altri. Così ci racconta ad esempio “Julia”135, boliviana, un tempo cattolica, oggi evangelica: “I miei rapporti non sono stati interessanti, piuttosto erano distanti e tristi. Le funzioni religiose sono molto diverse da quelle in Bolivia. Io andavo anche dai carismatici, là cantano tanto, applaudono, ballano. Qui tutti sono molto seri e tristi. Come hai conosciuto questo posto? Mi ha invitato una famiglia che io ammiro per le cose che fa con gli altri e con i suoi figli. Loro mi hanno invitata, dopo che molte volte mi hanno parlato dell’amore di Dio per me. Credo che, se io non avessi incontrato queste persone la mia strada avrebbe preso una brutta piega” 136. 133. 134. 135. 136. Alla Chiesa Evangelica vicina all’Ospedale Maggiore di Bergamo. EstrellaInt4. Nome di fantasia. EstrellaInt8. 111 Il secondo punto è l’insoddisfazione dei migranti nei confronti delle cerimonie che si celebrano nelle nostre parrocchie, che vengono definite fredde, superficiali e poco partecipate, anch’esse poco inclusive, poco attente alla gente, frequentate solo per abitudine, ma dove manca una condivisione reale di un momento di preghiera profonda e di gioia. Ovviamente, soprattutto riguardo all’ultimo punto, si tratta di percezioni negative che derivano dal fatto di avere abitudini diverse, di ritenere che la preghiera valga tanto più, quanto più si proclami a gran voce, sia accompagnata dal canto, dalla danza e dall’enfasi in generale, e questo vale soprattutto per gli africani, che del canto e della danza fanno elementi centrali della propria vita. Persone abituate ad una vita di comunità in cui il singolo è considerato molto più come membro del gruppo piuttosto che nella sua individualità sono abituate a credere profondamente che se la preghiera intima e personale vale 1, quella collettiva e corale, anche ostentata, vale 100, e in questa visione delle cose si sentono del tutto giustificati a partire proprio dalle Sacre Scritture (Mt, 18.20) dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sarò con loro. Da questo punto di vista è significativo ad esempio quello che ci dice Dago, congolese di 33 anni: “In secondo luogo i cattolici non ballano in chiesa: in Africa i chierichetti e tutti i fedeli battono le mani e cantano tutti insieme. Il salmo 150 dice di adorare Dio e pregarlo con musica e danze e così si fa 137. La Bibbia dice di adorare Dio con tutte le nostre capacità compreso la danza e il canto. Anche il momento della comunione è diverso: nella chiesa cattolica solo il prete beve il vino. Nella Chiesa Evangelica tutti bevono il vino e mangiano il pane. Si fa la comunione quando è giusto farla: nella chiesa di Dalmine ogni prima domenica del mese. Si chiama Santa Eucarestia” 138. 137. Alleluia / Lodate Dio nel suo santuario, / lodatelo nella distesa dove / risplende la sua potenza / ecc. 138. LiviaInt3. Metto qui una postilla che mi pare interessante, perché soltanto in questa intervista è stato sollevato un altro elemento di fastidio nei confronti della Chiesa cattolica ed è ciò che Dago commentava nel suo primo luogo. Diceva infatti, giudicando negativamente quelli che (secondo lei) sono i privilegi del prete cattolico di interpretare le sacre scritture per i fedeli e di bere il vino durante l’Eucarestia e (forse questa volta a ragione) la pigrizia dei cattolici in generale nello studio della Parola: “Vi è molta differenza tra cristiani cattolici e evangelici: per i cattolici solo i preti durante la celebrazione usano la Bibbia per cui i fedeli devo accettare quello che i preti dicono. I Musulmani invece studiano e dicono se un imam sbaglia; il pastore evangelico legge il passaggio della Bibbia con tutti i fedeli. Nella chiesa cattolica i cattolici non conoscono la Bibbia”. 112 Sullo stesso argomento, Tina, nigeriana, si esprime così: “nella Chiesa cattolica qui non c’è molto entusiasmo, non si sente lo Spirito dentro le persone. Ognuno arriva in silenzio, si canta a bassa voce, senza strumenti, si sta lì poco e poi tutti vanno a casa senza che sia cambiato niente. Nella chiesa africana, anche cattolica, è tutto diverso. Vai in chiesa e la gente canta, danza, prega forte, prega Dio con tutto il corpo e sente lo Spirito che viene. La messa dura tanto e c’è tempo per parlare dei propri problemi. Uno dei problemi della Chiesa cattolica qui in Italia allora è questa freddezza ... Sì, è la freddezza, anche dei preti, ma anche dei fedeli. Io non credevo, ma tanti italiani mi hanno detto che vanno in chiesa perché si deve andare, ma non ci credono, non credono in Dio... sono tutti un po’ scienziati. Si va a messa perché la domenica si va a messa, ma poi il rapporto con Dio non c’è” 139. Ci ha stupite positivamente invece quello che ci ha raccontato Samuel, anche lui nigeriano, un ragazzo cattolico che però dichiara di seguire anche movimenti alternativi, il quale ci ha descritto un bell’episodio di unione tra cattolici e quelli che lui definisce semplicemente protestanti, avvenuto poco tempo fa nella parrocchia di Villa di Serio: “E che mi dici dei canti e delle danze durante le celebrazioni? È molto importante. In Africa si balla e si canta anche nelle celebrazioni cattoliche. In Italia succede nelle chiese protestanti, ad esempio a Villa di Serio. Lì però mi ricordo che in una messa che abbiamo fatto assieme nel periodo di Natale anche il parroco si è messo a danzare” 140. A parte queste critiche mosse esclusivamente alla Chiesa cattolica, ce n’è un’altra che ci tocca, ma che in qualche modo condividiamo, noi cattolici e i nostri sacerdoti, anche con chi si trova alla guida o frequenta i movimenti sincretici. Si tratta infatti di una caratteristica comune a tutti gli esseri umani, che però chi cerca Dio, o vuole seguire un percorso spirituale e una guida retta, molto spesso rifugge come il segno maggiore dell’inconsistenza della persona: l’incoerenza evidente tra ciò che si predica (il parroco o il pastore), ciò in cui si crede (la Parola di Dio e il messaggio delle Sacre Scritture) e ciò che concretamente si fa. Il fatto è che, se un migrante cattolico non trova coerenza nel suo parroco o nei suoi vicini di casa cattolici, ritiene, forse generalizzando, ma comprensibilmente, che la Chiesa cattolica di Bergamo sia tutta fin- 139. IlaInt1. 140. LiviaInt7. 113 ta, e la sua mossa successiva, il più delle volte, è quella di rifugiarsi in un ambiente religioso secondo lui più coerente, ovvero quello di una delle tante alternative sincretiche, le quali tra l’altro, gli risultano più vicine, anche perché frequentate da gente che proviene dal suo paese, parla la sua lingua e condivide la sua condizione. Se la stessa cosa accade in ambiente neo-pentecostale o evangelico invece, non è necessario per il fedele cambiare credo, basta semplicemente abbandonare la chiesa il cui pastore non si dimostra all’altezza del ruolo che ricopre (ed evidentemente è un ciarlatano e non un uomo veramente chiamato da Dio) e trovarne un altro, migliore, sempre nell’universo protestante nel quale questa volta il pastore sia uno vero. Alma A., argentina, un tempo cattolica, ci dice sconsolata che: “In tutte le chiese mancano moltissime cose. Non solo i cattolici hanno problemi di come gestire i loro fedeli. Dentro le chiese evangeliche o protestanti ci sono aspetti che non sono coerenti con quello che vantano. Mi dispiace che stiano così le cose” 141. Amilkar, 35 anni, passato da un’esperienza di cattolico, a una di protestante, è poi tornato alla Chiesa cattolica in terra di immigrazione (la Missione Santa Rosa da Lima di San Lazzaro), perché: “il pastore era troppo critico, ambizioso e parlava troppo di denaro. Il suo comportamento era contrario alla sua predicazione (macchine lussuose con autista, vestiti di lusso…) certo i soldi che raccoglieva non andavano ai poveri” 142. S.R., boliviana, nata evangelica e poi diventata cattolica in terra di immigrazione, alterna momenti di entusiasmo a momenti di depressione, dovuti anche alla coerenza e all’incoerenza che vede intorno a sé: “Mio marito ed io abbiamo formato una famiglia molto giovani ed inesperti, abbiamo generato dei figli e non siamo stati genitori modello. Abbiamo fatto molti sbagli, ad esempio abbiamo sbagliato nella scelta delle attività lavorative, però tutto sommato adesso le cose iniziano ad andare meglio. In questo tempo di grandissime difficoltà sono andata a chiedere all’ex-parroco aiuto e mi ha accontentata con una bellissima predica e basta. Mi sentivo un poco abbandonata da quella religione che avevo scelto da grande … per questo dico che la religione non deve finire con la predica in chiesa, ma dovrebbe andare oltre la domenica a tutti i giorni a tutti i livelli della nostra quotidianità … per questo ero tentata di ri- 141. EstrellaInt10. 142. DonMarioInt1. 114 tornare alla Chiesa Evangelica, quando me ne ha parlato mia zia sono andata alcune volte” ed è consolante sapere che, forse, il merito del fatto che fino ad ora sia rimasta nella Chiesa cattolica sia dovuto ad un’esperienza positiva con un buon prete: “Da alcuni mesi abbiamo un parroco che è veramente in gamba, ci tiene molto ai bambini, ai giovani ed anche alle famiglie in difficoltà. È uno diretto e concreto. Molte volte ci ha sgridato a me e mio marito per come stiamo facendo crescere i figli… però poi ti viene in aiuto (...) Lui (il parroco) è molto preparato ed ha una esperienza molto importante alle spalle, conosce la difficoltà delle coppie miste come noi, conosce da vicino i problemi degli adolescenti ed è instancabile. Ci dovrebbero essere più preti come lui.143”. E ancora un boliviano, Carlos, dopo essere partito cattolico dalla sua patria e aver passato un periodo nelle chiese evangeliche qui, è poi tornato a frequentare la Chiesa cattolica, grazie all’accoglienza che ha trovato nella nuova parrocchia in cui si è trasferito (dopo essere stato a Bergamo per anni, si è poi spostato in uno dei paesi dell’hinterland) e alla vicinanza del curato e della gente: “Adesso sono contento di andare la domenica a messa e sono contento che ci vada anche lui con i suoi amici. C’è una signora della parrocchia che una volta al mese alla domenica porta lei il bambino insieme ad altri bambini alla messa. Noi abbiamo conosciuto tante persone nelle parrocchia di Petosino, ci conoscono i preti e sono contento perché mi danno una mano in tante cose…quest’anno al CRE 144 io non potevo mandare il bambino perché non avevo soldi e il mio datore di lavoro non mi stava pagando. Per cui ho detto a Carlos (mio figlio si chiama come me) che non ci poteva andare. Un giorno passando ho visto Don XXX che mi ha chiesto perché mio figlio non andava al CRE e io gli ho risposto che non avevamo tempo di mandarlo. Lui mi ha detto di non preoccuparmi dei soldi e ha detto di mandarlo lo stesso perché il bambino doveva andare al CRE. E il bambino è andato. È una vera comunità, solo che non c’è un centro di ascolto lì in parrocchia, c’è a Villa d’Almè. Sono contento della mia comunità di Petosino e sono contento di essere tornato alla mia origine, che non ho mai rinnegato, di cattolico”145. Un caso analogo è forse quello di Jessica, nigeriana, musulmana di origine, e attualmente a cavallo tra le chiese evangeliche e la chiesa cat143. EstrellaInt1. 144. Centro Ricreativo Estivo. 145. LiviaInt5. 115 tolica: “Da piccola abitavo sopra la moschea del paese, ma i miei genitori non erano quelli che imponevano le cose ai figli, per cui noi siamo cresciuti liberi di scegliere. Praticamente tutti i miei fratelli sono convertiti come me. Io adesso seguo molto una chiesa a Londra (evangelica - ndr) che è gestita da un pastore che è un musulmano convertito come me. E appena posso ci vado. Quella chiesa è una chiesa valida dove si va per pregare davvero Dio e non ci sono le scene che vedo (nelle chiese carismatiche - ndr) qui in Italia, le persone sono istruite, quando si parla della Bibbia il pastore è davvero preparato. Adesso sto facendo il lungo cammino per essere battezzata presso la chiesa cattolica qui a Bergamo: ho provato due volte ma non ci sono ancora riuscita. Avevo chiesto di battezzarmi al parroco che c’era prima a Grassobbio: mi ha fatto fare la catechesi, ma poi è arrivato il nuovo parroco e ho dovuto rifare il cammino. Io adesso frequento la parrocchia di Grassobbio, quando non sono a Londra. Quando sono qua frequento la chiesa cattolica, quando sono a Londra la Chiesa Evangelica, che è diversa da quelle che ci sono qui. È diversa la cultura: perché la vera Chiesa Evangelica/protestante usa la musica e gli strumenti musicali in maniera normale, non c’è tanta differenza con la chiesa cattolica. Non ci sono miracoli, non picchiano i bambini per farli stare seduti. È una chiesa vera che aiuta i fedeli in difficoltà” 146. In questo breve brano possiamo evidenziare tre cose La prima è la necessità di Jessica di seguire un culto che sia di una chiesa vera, che aiuta i fedeli in difficoltà. La seconda è il fatto che, come la maggior parte delle persone con un background tradizionale147, Jessica non sente alcuna contraddizione nel suo frequentare contemporaneamente la Chiesa Evangelica londinese e quella cattolica in Italia: l’idea di fondo è che tutti preghiamo lo stesso Dio. La terza cosa è l’atteggiamento fortemente critico che Jessica dimostra nei confronti dei movimenti carismatici e pentecostali (ma anche della Chiesa dei Testimoni di Geova) che ha avuto modo di frequentare a Bergamo e nei quali, come vedremo fra poco, ha avuto pessime esperienze. 146. LiviaInt6. 147. Probabilmente anche l’identità musulmana dei genitori della ragazza era più di facciata che di fatto, se in realtà erano così liberali da lasciare che i loro figli scegliessero per se stessi il cammino spirituale che più gli piaceva - e sappiamo che in paesi come la Nigeria, molti si dichiarano musulmani per non avere problemi. 116 Oltre a questo fatto della coerenza tra le parole e i fatti, vi sono poi elementi negativi e decisamente preoccupanti, sollevati da molti esclusivamente riguardo ai pastori dei movimenti protestanti alternativi del nostro territorio. La maggior parte dei fedeli che frequentano chiese evangeliche, carismatiche e neopentecostali sembra infatti fare una netta divisione tra pastori buoni e pastori cattivi. Come si è visto nelle pagine precedenti, i primi avrebbero ricevuto una chiamata diretta da Dio, che li avrebbe dotati di poteri di guarigione fisica o spirituale proprio per premiarli di una vita irreprensibile ed esemplare, mentre i secondi sarebbero veri e propri impostori, i quali, approfittando della buona fede dei loro discepoli e dei momenti di debolezza di questi ultimi, sarebbero capaci di arricchirsi alle loro spalle senza alcun rimorso, spingendoli a volte anche a compiere atti contrari alla legge di Dio e degli uomini. Per dir la verità, sebbene il sospetto che esistano pastori ignoranti delle Sacre Scritture e impreparati al ruolo di guida che dovrebbero rivestire sia comune a molte delle persone che abbiamo intervistato 148, soltanto in due casi abbiamo avuto occasione di raccogliere testimonianze concrete di veri e propri abusi ai danni dei fedeli. Ad ogni modo, per dovere di cronaca, va detto che le testimonianze riguardo ai casi peggiori vengono da persone che, deluse e schifate da ciò che dicono di aver visto e subito, si sono allontanate dai movimenti sincretici e oggi frequentano la Chiesa cattolica, o movimenti evangelici di stampo più tradizionale. Riguardo alla bassa istruzione dei pastori, si diceva, i commenti non mancano né tra i latinoamericani, né tanto meno tra gli africani. Dal resoconto dell’intervista a Emeka, nigeriano, un passato da seminarista, un periodo a Lagos in un movimento sincretico, e un ritorno alla Chiesa cattolica, attualmente cattolico, sappiamo che: “Un altro motivo per cui ha deciso di non frequentare le chiese pentecostali è il fatto che i pastori, secondo lui, non sono sufficientemente preparati e non hanno studiato abbastanza per essere d’esempio; alcuni sono in buona fede altri in cattiva fede. I preti cattolici studiano anni in seminario e devono avere intelligenza capacità e moralità” 149. 148. E forse proprio perché consci di questa situazione, molti dei pastori che ci hanno raccontato la loro esperienza sono entrati nel merito della propria formazione o hanno comunque ritenuto opportuno sottolineare l’origine mistica della chiamata ricevuta alla missione pastorale 149. SilviaInt5. 117 M. A., pastore, originario del Cile, figlio di un pastore a sua volta, ammette che: “In Cile, si fa il seminario come per i sacerdoti qui in Italia. Gli studenti rimangono nel seminario 5 anni, studiando teologia e prestando servizio in alcune congregazioni, inoltre ci vuole un minimo di un anno di pratica. Adesso le cose stanno cambiando. Penso che sono meno rigidi anche in Latino America. Le cose stanno cambiando, perché, c’è sempre più bisogno di persone che possano diventare strumenti nelle mani di Dio” e per quanto riguarda lui, che si è formato in Italia, dice: “Ho seguito un corso a Milano di due anni, ma mio padre è pastore nel mio Paese, e lui mi ha formato per diventare pastore” 150. Alma A., argentina, commenta riguardo alle differenze tra comunità cattoliche ed evangeliche: “C’è molta crisi dentro i gruppi (evangelici ndr), molte persone non vanno più al culto, né vanno nelle chiese cattoliche, si sono allontanati da ogni attività religiosa e vivono malissimo, senza fede e senza patria, come nel deserto. Alcuni gruppi non riescono a pagare l’affitto, altri hanno trovato un posto senza il minimo indispensabile per fare le celebrazioni, i fedeli se ne vanno perché non c’è molta accoglienza, la porta deve essere aperta, come anche il cuore. In altri gruppi, alcune persone vorrebbero fare da guida (pastore) senza preparazione, né teologica né spirituale … Nella Chiesa cattolica almeno c’è una certa organizzazione, che funziona … I preti sono preparati, i luoghi sono quelli e quelli i servizi” 151. E infine Jessica, nigeriana, su questo è molto critica: “spesso succede che chi arriva qui decida di punto in bianco di fare il pastore. E spesso non ha neanche letto tutta la Bibbia e proclama un cristianesimo che non ha nemmeno la cultura dentro. Non mi convincono: piuttosto vado alla Chiesa cattolica che ha una storia e una tradizione. (...) Non aprono una chiesa aprono un’associazione culturale perché non avrebbero le carte in regola per aprire una chiesa perché spesso non sono nemmeno pastori che hanno studiato! Un conto sono le chiese grandi e conosciute in Italia come Deep Life gestita da Ghanesi che ha un’organizzazione mondiale e ha anche le scuole, un conto sono quelle piccolissime che ci sono solo in Italia o solo a Bergamo che non sappiamo se il pastore ha studiato o no, se sfrutta le persone e cosa succede dentro alle chiese! Alcuni pastori parlano un inglese mischiato al dia- 150. EstrellaInt3. 151. EstrellaInt10. 118 letto, altri non sanno nemmeno leggere! E dicono di essere pastori!” 152. In realtà, da quanto riportato in Pace-Butticci (2010: 96) risulta che diversi pastori di origine africana “provengono da famiglie appartenenti a ceti medi. La più parte di loro ha un livello di istruzione medio-alto ed esperienze lavorative qualificate presso il paese d’origine”, anche se va aggiunto che: “Tra i pastori e le pastore sono pochi quelli ad aver conseguito titoli di studio in teologia o formazione pastorale. In alcuni casi hanno frequentato scuole bibliche presenti in Italia, rette da pastori pentecostali americani, oppure corsi online (...). Ciò che emerge è una realtà nella quale (...) tali figure definiscono le proprie linee teologiche sulla scia di un discorso religioso popolare, basato sulla loro stessa esperienza e poco legato alla dottrina ufficiale delle denominazioni dalle quali le Chiese possono trovare origine” 153: sulla base di questo è evidente che chi sospetta delle loro reali conoscenze teologiche, in realtà non si può dire abbia tutti i torti. Oltre alle numerose collette che si fanno durante i riti, sia le chiese evangeliche frequentate dai latinoamericani, sia quelle carismatiche e neopentecostali frequentate dagli africani prevedono che i propri fedeli versino ogni mese la decima parte del proprio stipendio per rispondere ai bisogni della chiesa e della comunità e per promuovere azioni caritatevoli nei confronti di fedeli in difficoltà. In linea di massima tutti i pastori protestanti dovrebbero avere un lavoro al di fuori della chiesa, come i fedeli comuni, proprio per non pesare sulle risorse economiche della chiesa, e questo, almeno a Bergamo, sembra di norma (ma non sempre, come dimostra il primo brano che riportiamo di seguito) essere rispettato più nelle chiese evangeliche dei latinos che nei movimenti neopentecostali e carismatici degli africani. Eppure i malumori manifestati dalle persone che abbiamo intervistato, e i loro sospetti su un uso quanto meno improprio dei soldi da parte delle guide spirituali dei vari gruppi, sembrano essere diffusi tanto tra i latinos, quanto tra gli africani. Le maggiori informazioni su questo punto delicato ci vengono, come anticipavamo, da due interviste, la prima fatta a Carlos, boliviano (LiviaInt5), e la seconda a Jessica, nigeriana (LiviaInt6), già più volte citate in questo come in altri capitoli. 152. LiviaInt6. 153. Pace-Butticci 2010: 96. 119 Ecco dunque le loro testimonianze. Carlos dice: “Per prima cosa ogni stipendio che prendevamo dovevamo darne il 10% al pastore. È obbligatorio dare il 10%. Ogni domenica quando si andava in chiesa alcune persone facevano da mangiare e noi dovevamo acquistare da mangiare lì perché lo vendevano. La domenica si stava dalle 8 del mattino alle 20 di sera lì alla chiesa. A me non piaceva. Io ho frequentato questa chiesa per un anno. Per me dare il 10% dello stipendio ogni mese era tanto…io prendevo 1000 euro ed eravamo in tre persone, con il bambino, l’asilo ecc. In più avevo il debito del biglietto per venire in Italia che dovevo ripagare. Per questo avevo detto al pastore che non ce la facevo e lui continuava a dirmi di venire…ma io non mi sentivo a mio agio ad andare e non pagare. Ho pensato fosse meglio non andare più. (...) Oltre a questo, ogni 15 minuti di predica del pastore passano gli addetti – che di solito sono bambini – con il cestino e tu devi dare l’elemosina più volte in ogni cerimonia”. E Jessica, che da ex-prostituta ha vissuto sulla propria pelle gli abusi di diversi pastori dal punto di vista dello sfruttamento a scopo di lucro, si sfoga: “Ma ti sembra giusto che uno che fa un lavoro faticoso e guadagna mille euro al mese deve dare per forza una percentuale del suo stipendio al pastore? Anche le ragazze che si prostituiscono, invece di toglierle dalla strada il pastore le benedice e le lascia andare. (...). Non è possibile che un pastore preghi Dio perché le ragazze vadano sulla strada e poi ritornino sane e salve alla chiesa e che una parte del ricavato del loro lavoro vada al pastore. Anche se loro lavorano in strada (e non hanno busta paga ufficiale) il pastore sa che guadagnano bene e devono portare la loro percentuale alla chiesa! Non le aiutano ad uscire dal giro: prendono i loro soldi dicendo loro che con le preghiere e l’olio santo non succederà nulla in strada 154. Io non so come fanno a vedere le ragazze che vanno e vengono dalla strada tutti i giorni o sono senza documenti senza aiutarle! Si approfittano perché tante di queste ragazze non sono istruite, non sanno nemmeno leggere e scrivere! Loro si fidano dei loro connazionali (...). Un’altra cosa che non fanno le chiese evangeliche a Bergamo è mettersi insieme, unirsi. Ognuno dei pastori vuole la sua piccola chiesa e i suoi fedeli ma mai si mettono insieme per non rovinare il business delle offerte! (...) Sono comunità chiuse non chiese. Io mi accorgo dove ci sono giri strani di magnaccia e soldi nella chiesa, ma 154. Già citato a pp. 41 e 98. 120 non vogliono che si scopra. Ci sono persone che sono clandestine e che hanno paura. Mi hanno buttata fuori più di una volta. Non ti vogliono lì perché sei diversa da loro anche se credi nello stesso Dio e perché ci sono delle cose che non vanno. Ma questa non è una chiesa, è una società di interesse. Tanti si sono finti chiesa come copertura per altro”. Anche Emeka, nigeriano di 44 anni, solleva dubbi sulla gestione economica del pastore di una delle chiese che ha frequentato e da quanto risulta dal resoconto di Silvia alla sua intervista “è molto arrabbiato con il pastore di Christ Embassy, perché è pieno di soldi e sostiene che “se conosci Dio non puoi rimanere povero”, dice di aiutare la gente povera ma per finta” 155. Va da sé che, al contrario di quanto affermato da Carlos, Jessica ed Emeka tutti i pastori che abbiamo avuto modo di intervistare hanno dichiarato di lavorare al di fuori della chiesa per mantenere le proprie famiglie, e di fatto stiamo ragionando sulla parola dei fedeli contro quella dei pastori. Non abbiamo prove, né in un senso, né nell’altro, anche se il sospetto del collegamento tra alcuni di questi pastori e il giro della prostituzione delle nigeriane è confermato da quanto avvenuto nel centro di accoglienza della Caritas di Urgnano, caso eclatante che avevamo già citato nell’introduzione a questo lavoro e che di fatto è stata una delle molle che ha fatto scattare nel nostro Ufficio Migranti l’idea di promuovere questo studio. Prima di passare oltre, mi preme sottolineare, anche solo en passant, un altro elemento contenuto nelle parole di Jessica, che rischia altrimenti di non essere colto. Si tratta della frammentarietà dei movimenti cristiani alternativi. La nostra intervistata infatti dice che: Un’altra cosa che non fanno le chiese evangeliche a Bergamo è mettersi insieme, unirsi. Questo fatto, come sospetta Jessica, non solo può consentire più facilmente ai diversi leader di gestire traffici più o meno leciti all’interno della propria piccola organizzazione senza risultare troppo visibili, ma esso rappresenta anche un fattore strutturale che impedisce alla Chiesa cattolica di poter instaurare un dialogo costruttivo con un referente unico e che agisca da portavoce e garante anche degli altri. Sempre da Carlos e Jessica veniamo a sapere anche di episodi allarmanti tra i pastori e i / le fedeli legati a questioni di sesso. Carlos racconta: “A me quello che mi ha offeso è stato un pastore 155. SilviaInt5. 121 che è arrivato da Milano in una domenica speciale per loro. Quella domenica ne sono arrivati tanti da Milano e tra questi c’era anche questo pastore che era una donna, ma nato uomo. Quando lo vedi è una donna: ha fatto una serie di operazioni per diventare donna, ha il seno, non ha il pomo d’Adamo. Questo pastore si è avvicinato dicendomi se ero indeciso in che genere volevo stare, se sapevo se volevo essere un uomo o una donna. E io gli ho chiesto perché mi chiedeva questa cosa, non capivo e lei/lui mi ha risposto che io avevo la coda e quindi era una tentazione che avevo e mi ha detto che dovevo avvicinarmi di più a Dio e non all’altra parte… Poi mi ha detto di seguirlo… ma io gli ho detto che sapevo bene di essere eterosessuale, avevo un bambino. (...) Il pastore un giorno è andato a casa di questa ragazza e le ha detto che voleva aver un altro tipo di rapporto con lei. Lei gli ha risposto che aveva un marito in Bolivia e che anche lui era un pastore. Il pastore in Italia l’ha obbligata a stare con lui minacciando che avrebbe detto a suo marito che avevano avuto una relazione. Questa cosa ha fatto saltare il matrimonio di questa ragazza. Adesso quella ragazza è ancora qui: ma dice che non ne vuole più sapere nulla delle chiese evangeliche. Per questa storia, la ragazza ha denunciato il pastore che è stato rinviato in Bolivia”. E Jessica, sempre più arrabbiata e disperatamente determinata continua nel suo sfogo: “Chi dei nigeriani frequenta quelle chiese, soprattutto quella di Torre Boldone? Clandestini generalmente, cioè le persone più fragili, vittime… e la chiesa organizza tutto: se vuoi trovare una ragazza fanno le combinazioni 156, se vuoi andare sulla strada ecc.. (...) Ma io so perché tanti non vogliono farmi entrare nelle chiese: io ho collaborato con la giustizia, ho fatto arrestare tanti magnaccia. E quando mi vedono dicono “è arrivata la poliziotta”. Siccome ho collaborato con la giustizia allora mi isolano. Ma io non parlo con la polizia da 22 anni! Però quando mi vedono pensano solo a quello. Ma un pastore che mi vede arrivare dovrebbe essere contento. Io gli faccio vedere come sono uscita dal quel problema della prostituzione e come ho ricostruito la mia vita. Io sono l’esempio che Dio c’è anche se sbagli, anche se hai preso 156. Pace-Butticci (2010: 108) parlano dei matrimoni combinati all’interno delle Chiese come di una prassi assolutamente comune: “Per molte donne single le Chiese diventano un luogo dove poter incontrare la persona adatta, una sorta di mercato matrimoniale gestito e organizzato dal pastore e dalla pastora. È un mercato con potenziali rischi limitati e soprattutto con un garante di qualità - personalmente non ne sarei sempre così sicura ndr - pronto a intervenire se il prodotto non si rivela soddisfacente. La vita privata è in questo senso una questione della comunità”. 122 un cammino sbagliato. Io posso aiutare altre donne ad uscire da questo problema e per prima cosa cercherò di impedire alle ragazze della tratta o su quella strada di andare in quel tipo di chiese lì e fargli vedere che ci sono tante chiese in Italia che sono molto meglio”. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a parole non confermate dai fatti, ma forse una piccola prova, o quanto meno un indizio che le cose in alcuni casi potrebbero davvero essere così, oltre al resoconto di ciò che a suo tempo era accaduto in uno dei centri di accoglienza della Caritas, ci viene proprio da quel centro di accoglienza, dove risiede ancora una delle ragazze nigeriane che in quell’occasione erano state coinvolte nell’affaire poco chiaro. Beauty ha ostinatamente rifiutato di parlare con me e, come risulta dal colloquio che ho avuto con una delle educatrici che lavorano lì, “spesso, quando lascia il centro di accoglienza per recarsi alla chiesa, rimane fuori per tutta la notte, dichiarando che questo è necessario per partecipare come si deve al culto, che, appunto, spesso prevedrebbe riti e cerimonie che si protraggono dalla sera del venerdì fino al mattino del sabato successivo” 157. Non sta a noi giudicare se ciò che ci è stato raccontato da Carlos e Jessica sia vero nei minimi dettagli. L’importante è che le loro parole ci aiutino quanto meno a rimanere vigili su cose orrende, che potrebbero anche essere vere, e che potrebbero accadere ogni giorno senza che noi ce ne curiamo come forse dovremmo. 157. IlaInt1. 123 CONCLUSIONI. Arrivati alla fine del nostro percorso, vorrei aprirne le conclusioni prendendo a prestito le parole di BUJO del 1988: “Il concetto di fondo che percorre questo studio come un filo rosso è quello della posizione africana – e nel caso nostro anche latinoamericana – di fronte alla vita. Ogni progetto per l’ecclesiologia africana – e latinoamericana – che non abbia riguardo per questo concetto corre il pericolo di restare superficiale e di parlare al vento per gli africani – e per i latinoamericani –”158. Credo che in queste poche righe sia racchiuso il risultato principale al quale siamo arrivati analizzando le interviste agli immigrati di casa nostra e le osservazioni dei culti e delle celebrazioni ai quali abbiamo avuto l’occasione di partecipare, e questo anche alla luce di ciò che sappiamo per certo sulle culture tradizionali delle loro macroaree di provenienza (cap. 2). Le persone che abbiamo incontrato infatti, siano esse originarie dell’Africa o dell’America Latina sono accomunate da questo forte senso religioso, che deriva in loro dall’humus tradizionale nel quale sono vissute e del quale sono impregnate anche a livello inconscio. In loro è basilare, costitutiva e innegabile l’idea che il mondo reale sia costituito da due piani distinti ma interconnessi e co-presenti: quello del mondo naturale in cui si muove, vive, lavora e prega l’essere umano nella sua vita terrena, e quello del mondo sovrannaturale, in cui si muo- 158. Bujo 1988:141. 124 vono lo Spirito di Dio, quelli dei suoi angeli, anche ribelli, e quelli delle persone che ci hanno preceduto nel viaggio su questa terra. Così essi sono convinti che ogni atto, ogni perdita di equilibrio e ogni suo ristabilimento in questo mondo provochino una reazione a catena nel mondo sovrannaturale, i cui abitanti sono pronti a premiarci, se ce lo meritiamo, e a punirci anche molto severamente, se agiamo per il male. È l’idea veterotestamentaria, che deriva da un sostrato tradizionale e popolare, del Dio che premia e che punisce ogni uomo in base alle sue azioni, del giudice severo che non perdona, ma esercita il suo governo con pugno di ferro. È l’idea che sta alla base della teologia della prosperità che costituisce il fondamento su cui si basa la maggior parte dei movimenti sincretici di cui ci siamo occupati in queste pagine. È l’idea che solo Dio può. E che può attraverso uomini giusti, che rispondono ad una chiamata diretta dello Spirito Santo e che, grazie ad un rapporto privilegiato con esso, possono guarire chi sta male, fisicamente e moralmente, perché la malattia non è altro che il sintomo del male del mondo che si manifesta nell’uomo peccatore. Già capire questo significa essere arrivati in qualche modo ad una comprensione maggiore del fenomeno migratorio in sé e di che cosa si aspettano di trovare a casa nostra, o di che cosa portano con sé dal punto di vista religioso, gli immigrati che approdano sulle nostre sponde, a seconda della prospettiva che si sceglie di adottare. Procedendo con la nostra analisi (cap. 3 e 4), abbiamo individuato gli elementi dei culti sincretici che maggiormente attirano i migranti, provocandone talvolta l’allontanamento (in alcuni casi, come abbiamo visto, solo temporaneo) dalla Chiesa cattolica, facendo appello proprio al sostrato popolare, partecipatorio e collettivo della dimensione religiosa di chi è abituato a vivere tutto all’interno di una comunità coesa e non, come l’europeo medio, a vedere la religione come qualcosa di puramente personale, da vivere in un rapporto intimo con il Signore, e da separare totalmente dalla dimensione pubblica dell’esperienza quotidiana. Infine (cap. 5) abbiamo cercato di capire quali siano le maggiori critiche mosse dai nostri immigrati, soprattutto da quelli che nei loro paesi d’origine professavano la fede cattolica, alla Chiesa di Bergamo, e allo stesso tempo ci siamo voluti render conto delle riserve che invece essi stessi, pur frequentandoli, esprimono nei confronti dei movimenti sin125 cretici evangelici, carismatici e neopentecostali che paiono proliferare così velocemente nella nostra Diocesi. Sulla base di quanto emerso da questo breve pellegrinaggio nel mondo della religione migrante, ora forse possiamo cercare di sollevare alcuni punti di riflessione per chi, all’interno della Diocesi di Bergamo, ma forse anche della Chiesa cattolica in generale, volesse veramente aprire un dialogo costruttivo con le nuove componenti cristiane che oggi abitano nel nostro paese e riportare il Vangelo di Cristo al centro dell’attenzione anche nei rapporti con gli immigrati, i quali spesso nutrono un desiderio religioso sincero e anelano ad una spiritualità nuova, sul modello di quella delle prime chiese cristiane, in una dimensione soprattutto comunitaria. Il dialogo a mio avviso dovrebbe concentrarsi almeno su due punti di partenza, entrambi legati al modo di vedere, considerare e valorizzare la Pentecoste e il dono dello Spirito Santo: da un lato la guarigione (fisica, morale e spirituale), che comporta i temi delicati del malocchio, dell’esorcismo e dei vari riti di protezione e liberazione, dei quali ad oggi molti dei cristiani che abbiamo incontrato sentono la necessità, e dall’altro lato il coinvolgimento emotivo e attivo, nella celebrazione, dei fedeli, che dovrebbero avere una maggiore possibilità di esprimersi in tempi e momenti a loro dedicati, nel canto, eventualmente nella danza, nella preghiera spontanea e nelle testimonianze, che spesso racchiudono angosce, rese talvolta meno pesanti dal solo fatto di essere condivise. Un piccolo suggerimento per un nuovo modo di proporre il Cristo, che deriva dalle esperienze missionarie delle Chiese più giovani dell’Africa e dell’America Latina, può essere quello già proposto nel 1986 per l’Africa da KABASÉLÉ. Egli infatti, al cap. 3 di Chemins de la Christologie Africaine 159, parlava di ciò che noi oggi definiremmo semplicemente un processo di inculturazione, proponendo in primo luogo di tradurre i titoli di Cristo nelle lingue locali delle regioni in cui i missionari avrebbero dovuto portarne il messaggio, cercando di sottolineare quei ruoli che nella tradizione della cultura locale godevano già di un certo rispetto. Così consigliava ad esempio, tra i Luba, di chiamare Cristo Mulopo, che è uno dei titoli più antichi per il capo e una parola che, in lingua luba, indica anche Dio tout-court. Dietro a questo duplice significato, quel159. Volume collettivo il cui scopo era proprio quello di trovare i modi giusti per proporre la figura di Gesù in un ambiente tradizionalista, nel quale il compito dei cattolici era legato alla prima evangelizzazione. 126 lo di capo e quello di Dio, infatti, si nasconde il pensiero tradizionale, secondo cui “Il capo bantu rappresenta una figura ambivalente (...) sarebbe un essere bicefalo, nel quale il volto di quaggiù nasconde una parte dell’aldilà” e la stessa cosa si può dire, senza temere di essere tacciati di eresia, di Gesù Cristo. Inoltre, il fatto di attribuire a Gesù il titolo di capo Bantu, equivale ad attribuirgliene le caratteristiche, cioè la generosità (e Gesù è talmente generoso da donare la sua vita per i suoi amici) e la saggezza, che nel capo bantu “si esprime anche nel buon giudizio”160. Nel nostro qui, la Diocesi di Bergamo, e nel nostro ora, l’era della globalizzazione e della crisi dell’economia e dei valori dell’Europa rinascimentale e illuminista, che puntava tutto sull’uomo posto al centro del mondo, ovviamente questi consigli e questi esempi sembrano lontani e inadeguati, ma l’operazione che la Chiesa dovrebbe fare per avvicinare se stessa e il proprio messaggio al mondo degli immigrati al fine di suscitarne l’adesione è in pratica la stessa: identificare quali caratteristiche del Cristo siano più adatte e comprensibili per coloro il cui background culturale e le cui aspettative abbiamo tentato di delineare nei capitoli precedenti di questo testo. Si tratta di un’operazione delicata, perché è chiaro che la Chiesa non può scegliere quale messaggio trasmettere nella sua opera di annuncio. Il messaggio è uno e insostituibile, ed è, e resta quello del Vangelo, ma certamente la Chiesa può decidere come comunicarlo, affinché esso possa essere accolto nel migliore dei modi. Non si tratta quindi di negare o cancellare determinati aspetti del Cristo (la sua croce e la sua condizione di essere umano per esempio), bensì di partire da altre sue caratteristiche (il sue essere di natura per metà divina, il suo aver vinto la morte) per far sì che anche le prime possano essere accettate e comprese. Così, se il bisogno è quello della salvezza totalizzante, del sentire la religione come strumento potente, capace di guarire i mali spirituali e fisici dell’uomo e del mondo, allora non c’è nulla di male nel presentare il Cristo nella sua dimensione di guaritore e di purificatore di anime e la Chiesa diocesana non dovrebbe avere problemi nell’avvicinarsi ai nuovi credenti su questo terreno, offrendo vicinanza, comprensione, dialogo, un abbraccio affettuoso, che spesse volte vale più di una benedizione im- 160. cf Kabasélé pp. 116-117. 127 partita dagli altari per far sentire alle persone che ci si vuole mettere al loro servizio e le si vuole aiutare concretamente ad affrontare i problemi che la vita inevitabilmente pone. A questo proposito CANOVA, già nel 1987, scriveva che “La cura divina è pure una provocazione per la pastorale. Essa, infatti, in quanto inserita in una liturgia, ci ricorda l’aspetto religioso delle situazioni concrete che ogni uomo sta vivendo” 161. Sentire di potersi affidare alle cure spirituali di un sacerdote capace di accompagnare e di sostenere i fedeli che a lui si affidano nei momenti bui della vita, senza giudicarli, senza sentirli come un peso, ma stando loro vicino, come il pastore sta vicino alle sue pecore, molte volte può fare la differenza tra il lasciarsi andare all’oblio e alla desolazione e il trovare il coraggio di lottare e rialzarsi per ritrovare nuovo vigore e nuovo senso in una vita che si credeva ormai destinata alla deriva. Allo stesso tempo, se la necessità è quella di un rapporto diretto con il Signore attraverso la preghiera, e la convinzione di fondo è che pregare insieme, magari con il canto, vale due volte, allora la Chiesa cattolica dovrebbe proporre nuove modalità di ritrovo, momenti di condivisione nella preghiera, che permettano a ciascuno di esprimere le proprie ansie e le proprie delusioni, chiedendo, ad una comunità che vuole sentire compartecipe e corresponsabile della sua salute, di pregare per lui. Da questo punto di vista forse alla Chiesa manca solo un po’ di fantasia, manca la volontà di rompere gli schemi ormai obsoleti degli incontri programmati, di anno in anno sempre uguali a se stessi, manca la voglia di alzare lo sguardo ed aprire le braccia per raggiungere anche coloro che fino ad ora sono stati al di fuori dell’ambito di influenza delle attività tradizionali, e in questo caso non penso solo ai migranti, ma anche a tutti i nuovi cristiani che vivono al limite... alle coppie divorziate, alle giovani coppie di conviventi, magari con figli battezzati, a quelle persone che, dopo anni di manifesto disinteresse per qualsiasi forma di religione, per la prima volta, forse a causa della crisi e di un disagio sociale crescente, sentono il bisogno di sondare una dimensione diversa del proprio essere e di trovare serenità per uno spirito bisognoso di risposte. Se la nostalgia è quella per l’accoglienza e la dimensione famigliare e collaborativa di un’esperienza religiosa pregressa, vissuta in un paese straniero, nel quale la vita comunitaria è l’unica vita possibile, la Chiesa di Bergamo dovrebbe essere capace di andare incontro all’immigrato 161. Canova 1987:171. 128 con la voglia di includerlo e non di escluderlo dalle proprie attività, di trovargli nuovi ruoli, attivi e non solo passivi, all’interno dei gruppi di laici, senza dimenticare che quanto più una persona sente di condividere un messaggio religioso e le sue finalità, tanto più essa sente il bisogno di mettersi in gioco e di partecipare attivamente, non solo da spettatore, alla costruzione di un futuro migliore. Una celebrazione animata da un coro africano potrebbe far riscoprire anche agli italiani la possibilità di partecipare con gioia e con trasporto alla messa domenicale. Una sessione di catechesi, per bambini, ma anche per adulti, dove siano invitati a parlare cattolici provenienti da altre parti del mondo, che abbiano alle spalle esperienze importanti, magari come guide di comunità locali visitate dai padri missionari solo una o due volte l’anno, eppure solide nella fede e solidali nel mutuo sostegno, potrebbe rivelarsi un’esperienza estremamente interessante e mostrare un modo diverso di essere cristiani, e cristiani impegnati. Allo stesso tempo dare spazio alle testimonianze di persone comuni, perseguitate nei propri paesi d’origine solamente perché cristiane, potrebbe aiutare i cattolici nostrani a trovare energie nuove per vivere la propria fede, spesso talmente intiepidita nella noia da risultare apatica. Se la volontà è quella di farsi strumenti nelle mani di Dio al servizio dei più poveri e dei più bisognosi, la Chiesa cattolica, che pure fa già tantissimo per i migranti in ogni parte del mondo, non dovrebbe dimenticare che essi non hanno solo bisogno di aiuti materiali, ma anche, molto spesso, di una vicinanza spirituale, che forse oggi non è ancora stata capace di garantire loro nei modi e nei tempi migliori. Soprattutto nel caso dei migranti, troppo spesso tenuti ai margini dalla società civile perché diversi per la cultura, per le abitudini culinarie o anche solo per il modo di vestire o per il colore della pelle, la Chiesa cattolica dovrebbe fare il primo passo e servire da esempio anche per gli altri. Le comunità parrocchiali, i membri dei gruppi missionari per primi, dovrebbero avere il coraggio di andare ad incontrare i nuovi arrivati, di invitarli nelle proprie case, di sostenerli nel loro processo di integrazione. I sacerdoti e le persone di buona volontà impegnate nelle attività degli oratori dovrebbero prendersi del tempo da dedicare alle visite domiciliari delle persone arrivate da poco, per far sentir loro la propria vicinanza e soprattutto la propria stima, e per dimostrare agli altri che l’amicizia interculturale è possibile e costruttiva in una società in continua evoluzione come la nostra. 129 Se in tutto questo l’unica difficoltà è data dalla lingua, in un mondo globale e in una realtà multietnica, come ormai è diventata la Diocesi di Bergamo, la Chiesa cattolica non dovrebbe temere di offrire a coloro che ancora non parlano italiano, ma che hanno scelto di venire a vivere tra noi, maggiori luoghi e maggiori spazi di incontro e formazione, in cui essi si sentano liberi di parlare, se non nelle rispettive lingue materne (il Quechua, lo Yoruba, il Twi, il Bawlé e così via), almeno nelle lingue europee maggiori, che nei loro paesi d’origine sono il veicolo di comunicazione per eccellenza, ovvero l’inglese, il francese, lo spagnolo, il portoghese. Quest’ultima osservazione può sembrare una banalità, ma non lo è. Nei rapporti umani spesse volte non basta la buona volontà. Senza il dialogo anche le nostre migliori intenzioni possono essere fraintese da chi proviene da una cultura diversa. Senza una lingua franca comune, di fatto non può esistere comunicazione. Senza comunicazione, non può esserci confronto. Senza confronto, non è possibile la conoscenza. Senza partire da una conoscenza reciproca, non si può arrivare alla costruzione di un rapporto positivo e duraturo. Anche su questo la Chiesa di Bergamo dovrebbe forse riflettere. 130 ALLEGATI 1. GRIGLIA DI OSSERVAZIONE. 2. GRIGLIA DI RIFERIMENTO PER L’INTERVISTA SEMI - STRUTTURATA. Allegato 1 GRIGLIA DI OSSERVAZIONE 1. IL CONTESTO - DESCRIZIONE DEL LUOGO DI CULTO. - NUMERO INDICATIVO DEI PARTECIPANTI - GRADO DI CONFIDENZA (ANCHE PROSSEMICA) TRA MEMBRI DEL GRUPPO - PRESENZA DI ITALIANI: SI COMPORTANO ALLO STESSO MODO? - VOLUME DELLA VOCE DENTRO E FUORI IL LUOGO DI CULTO - ESISTE DISTINZIONE TRA GRUPPI MASCHILI E FEMMINILI (DENTRO E FUORI DAL LUOGO DI CULTO)? - TIPO DI ABBIGLIAMENTO (C’È UNA CURA PARTICOLARE NEL VESTITO O NELL’ACCONCIATURA? UN COLORE DOMINANTE? UNA SORTA DI DIVISA?) - LE PERSONE ARRIVANO PRIMA DELLA PREGHIERA? SE SÌ, QUANTO? - L’ARRIVO DEL LEADER È SEGNATO DA QUALCHE MOVIMENTO PARTICOLARE? 2. IL MOMENTO DEL CULTO - DISPOSIZIONE DI UOMINI, DONNE E BAMBINI NELLA SALA - DESCRIZIONE DELLE FASI DEL CULTO (CHI LEGGE COSA? CHI CANTA COME? SI DANZA? TUTTI INSIEME? QUALCUNO SI PORTA AL CENTRO DELLA SALA? CI SONO MOMENTI DI ESALTAZIONE COLLETTIVA? QUALCOSA CHE RICHIAMI STATI DI TRANCE?) - DESCRIZIONE DEGLI STRUMENTI DEL CULTO (IL LIBRO SACRO: CHI E COME LO MANEGGIA? ACQUA BENEDETTA, OLII O UNGUENTI PARTICOLARI: QUANDO E COME COMPAIONO NELLA SALA?) - IL CELEBRANTE / LEADER IMPONE LE MANI SULLA FOLLA? SU TUTTI? SU QUALCUNO? QUANDO E COME - CI SONO MOMENTI DI PREGHIERA SPONTANEA? COME SI SVOLGONO? - ESISTE QUALCHE COSA CHE ANCHE VAGAMENTE RICORDI L’EUCARESTIA? COME SI CHIAMA? CHI VI PARTECIPA? CHE COSA RAPPRESENTA? 132 - COME SI CONCLUDE IL RITO - DOPO IL RITO QUALCUNO SI FERMA PER CHIEDERE COSE PARTICOLARI AL LEADER? BENEDIZIONI, IMPOSIZIONE DELLE MANI, PREGHIERE? - SI RACCOLGONO SOLDI DURANTE IL RITO? DI CARTA O DI METALLO? - SI DISTRIBUISCONO SOLDI DURANTE / DOPO IL RITO? A CHI E COME? - SI BENEDICONO OGGETTI PORTATI DAI FEDELI? QUANDO? COME? - NOTI UN PARTICOLARE USO DEL LINGUAGGIO E DELLA GESTUALITÀ DA PARTE DEL LEADER? 3. DOPO IL CULTO - LE PERSONE SI FERMANO PIÙ O MENO A LUNGO DOPO LA PREGHIERA? CON CHI? TRA DI LORO? FANNO PICCOLI GRUPPI? - IL LEADER LASCIA PER PRIMO - PER ULTIMO IL LUOGO DI CULTO? - QUALCUNO LO SEGUE? PERCHÉ? - SONO PREVISTI MOMENTI CONVIVIALI COMUNITARI DOPO IL CULTO? (TIPO PRANZI, CENE, BUFFET O SIMILI?) - SE NON SONO PREVISTI MOMENTI COLLETTIVI, QUALCHE GRUPPETTO LASCIA IL LUOGO DI CULTO DANDO L’IMPRESSIONE DI PROSEGUIRE IL MOMENTO CONVIVIALE ALTROVE? - ESISTE QUALCOSA DI SIMILE ALLA SCUOLA DELLA PAROLA? 133 Allegato 2 TRACCIA INTERVISTA SEMI-STRUTTURATA STORIA DI VITA - RAPPORTO CON LA RELIGIONE NEL PAESE D’ORIGINE (FREQUENTAVI LA CHIESA CATTOLICA? ALTRI CULTI?) - RAPPORTO CON LA RELIGIONE IN ITALIA (FREQUENTI ANCHE LA PARROCCHIA?) - QUALI SONO I RAPPORTI CON I TUOI VICINI ITALIANI, I TUOI CO-PARROCCHIANI? - I TUOI CO-PARROCCHIANI TI COINVOLGONO NELLE INIZIATIVE DELLA PARROCCHIA? TI SENTI INTEGRATO? - QUALI SONO I RAPPORTI CON IL TUO PARROCO? - CHE COSA MANCA ALLA TUA PARROCCHIA DI CIÒ CHE INVECE TROVI NELLA CHIESA CHE FREQUENTI? - CHE COSA MANCA ALLA TUA PARROCCHIA DI CIÒ CHE TROVAVI NELLE CHIESE CATTOLICHE DEL TUO PAESE? - COME SEI ENTRATO IN CONTATTO CON IL MOVIMENTO RELIGIOSO CHE FREQUENTI? - CI SONO MOLTI TUOI CONNAZIONALI? - IN CHE LINGUA PARLATE? - AVETE RAPPORTI ANCHE FUORI DAL LUOGO DI CULTO? - PARLATE SOLO DI RELIGIONE O C’È ALTRO CHE VI UNISCE? - C’È SOLIDARIETÀ TRA DI VOI? SE QUALCUNO HA BISOGNI ECONOMICI O DI ALTRO GENERE, GLI ALTRI GLI SONO VICINI? LO AIUTANO? - IL PASTORE VI È VICINO QUANDO AVETE PROBLEMI ECONOMICI O DI MALATTIA? IN CHE MODO? - CI SONO MOMENTI DI PREGHIERA PER AIUTARE QUALCUNO A GUARIRE DA QUALCHE MALE NELLA CHIESA CHE FREQUENTI? - CI SONO EPISODI DI ESORCISMO? 134 - AFFRONTATE MAI IL PROBLEMA DELLA STREGONERIA? ANCHE QUI SAI, FINO A POCHI ANNI FA SE NE PARLAVA SPESSO E C’ERANO PRETI CHE AIUTAVANO... - E CHE MI DICI DEI CANTI E DELLE DANZE? - E LE BENEDIZIONI? - HAI MAI PROVATO A CHIEDERE BENEDIZIONI SPECIALI AL TUO PARROCO? SAI CHE SE GLIELO CHIEDI PUÒ VENIRE A BENEDIRE LA TUA CASA? - RIGUARDO AI TUOI FIGLI: HAI MAI PRATICATO SU DI ESSI DEI RITI TRADIZIONALI? PORTANO AMULETI O TALISMANI TIPICI DELLA TUA TERRA? PERCHÉ? - I TUOI FIGLI PARTECIPANO CON TE AL CULTO DI QUESTA CHIESA? OPPURE FREQUENTANO LA CHIESA CATTOLICA? O NESSUNA DELLE DUE? - A SCUOLA I TUOI FIGLI FREQUENTANO LE ORE DI RELIGIONE CATTOLICA? PERCHÉ? - I TUOI FIGLI FREQUENTANO L’ORATORIO PER MOMENTI DI INCONTRO CON GLI ALTRI RAGAZZI DELLA LORO ETÀ? O PER IL DOPOSCUOLA? - HAI FATTO FREQUENTARE LORO GLI ASILI CATTOLICI? - PER TE È NORMALE CHE I TUOI FIGLI FREQUENTINO SIA L’ORATORIO CHE IL TUO LUOGO DI CULTO? - CHE COSA NE PENSANO I TUOI FIGLI DELLA RELIGIONE? - HANNO IDEA DELLA RELIGIONE TRADIZIONALE DEL TUO PAESE? 135 BIBLIOGRAFIA MINIMA DI RIFERIMENTO MONOGRAFIE A.A.V.V. (1986) Chemins de la Christologie Africaine. Paris: Desclée. A.A.V.V. (2008) Religioni e sette nel mondo vol 2. - “I movimenti religiosi e alternativi tra i migranti”, tutti gli interventi, Gris eds. ACLI BERGAMO (2008) Migranti cristiani sotto il cielo di Bergamo. Verdello: Tipografia Gamba. ACLI BERGAMO (2012) Migranti cristiani sotto il cielo di Bergamo. Verdello: Tipografia Gamba. BARRETT D. B. & JHONSON T. M. (2001) World Christian Trends, AD 30 - AD 2000. Pasadena: William Carey Library. BIBAKI N. (1998) La stregoneria. Bologna: E.M.I. BILLINGSLEY, S. C. (1968 - ed. 2008) It’s a New Day. Race and Gender in the Modern Charismatic Movement. 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PER CAPIRE IL FENOMENO: UNO SGUARDO AL CONTESTO DI PARTENZA PARTE I - L’AFRICA PARTE II - L’AMERICA LATINA 28 39 57 III. ELEMENTI DI CONTINUITÀ, OVVERO PERCHÉ I MOVIMENTI CARISMATICI, PENTECOSTALI, EVANGELICI E LE NUOVE FORME DI ASSOCIAZIONISMO RELIGIOSO RISULTANO ATTRAENTI (PER I MIGRANTI, MA NON SOLO) 70 IV. QUESTIONI DI IDENTITÀ, OVVERO L’IMPORTANZA DELL’INCLUSIONE 95 V. MIGRANTI, NUOVE CHIESE E CHIESA CATTOLICA: LE RISERVE 108 CONCLUSIONI 124 ALLEGATI 131 BIBLIOGRAFIA MINIMA DI RIFERIMENTO 137 Finito di stampare nel mese di luglio 2013 per i tipi de “il nuovo melangolo” dalla Microart - Recco (Ge) Impaginazione e impianti: Type&Editing - www.typegenova.it